Museum Seed - The Futurability of Cultural Places -Quasi Quasi Chiamo - Inccontri di Design alla Radio - Usmaradio - Ico Migliore Servetto - Museum Seed - The Futurability of Cultural Places

Ico Migliore – The Futurability of Cultural Places

ITA - #architettura #exhibit #museo

Quasi quasi chiamo

durata 20:11

QUASI QUASI CHIAMO – Incontri alla radio con…
un podcast di UNI.RSM DESIGN TALKS
a cura di Elena Brigi
speaker & host Chiara Amatori, Giorgio Dall’Osso e Roberto Paci Dalò
in redazione Emanuele Lumini, Alessandro Renzi e Clara Sartori
grafiche Gaia Zuccaro

Ico Migliore

Architetto e tre volte vincitore del Premio Compasso d’Oro, è professore al Politecnico di Milano e Chair Professor alla Dongseo University di Busan (Corea del Sud). Con Mara Servetto, è co-fondatore dello studio di progettazione Migliore+Servetto, noto per progetti di spatial e communication design, integrando architettura, grafica e design, con un focus sull’uso della luce e delle nuove tecnologie. Lo studio ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui 13 Red Dot Design Award, 2 German Design Award, 3 FX Interior Design Awards e 3 International Design Awards.

Tra i principali progetti firmati da Migliore ci sono il Museo Chopin a Varsavia, l’ADI Design Museum a Milano, il Museo Egizio di Torino e la sala sull’evoluzione umana del Museo di Storia Naturale di Milano. Ha progettato la mostra “Coats! Max Mara, Seoul 2017” al DDP di Seoul, vincendo il Red Dot Design Award.

Progetti recenti includono il Blue Line Park a Busan, un parco lineare di 5 km su una ferrovia dismessa, premiato con il City_Brand&Tourism Landscape Award; la nuova sede della Fondazione The Human Safety Net a Venezia, premiata con il Red Dot Design Award; e nuovi format per i bookshop Electa a Roma e Venezia.

Ico Migliore - Migliore+Servetto

Roberto Paci Dalò  Usmaradio. Al microfono Roberto Paci Dalò e Giorgio Dall’Osso. Eccoci alla prima puntata di Incontri alla Radio un nuovo programma dedicato al design a cura di Elena Brigi. Oggi incontriamo Ico Migliore dello studio Migliore Servetto per parlare del nuovo libro Museum Seed appena uscito per Electa. Lascio la parola a Giorgio Dall’Osso per una breve nota biografica.

Giorgio Dall’Osso  Lo studio Migliore Servetto nasce a Milano e lavora da anni nell’ambito del design, occupandosi di exhibit, comunicazione e prodotti comunicativi. Più in generale si parla di progettare identità ambientali. Sul sito si legge un’interessante idea del design concepito come interfaccia attiva, strumento di comunicazione elettiva tra istituzioni aziende e pubblico e rivolto a costruire esperienze memorabili. Ico affianca l’attività di architetto a quella di docente, ma anche di scrittore. Sono infatti molteplici le sue fatiche letterarie, ultima delle quali Museum Seed – The Futurability of Cultural Places (Electa, 2024).

R.P.D.  In collegamento da Milano diamo il benvenuto a Ico Migliore. Buongiorno Ico.

Ico Migliore  Buongiorno a tutti, grazie.

R.P.D.  Allora la prima domanda che volevamo porti era se fare questa conversazione in italiano o in coreano.

I.M.  Possiamo parlare in coreano! Adesso con l’intelligenza artificiale non c’è problema. Posso parlare qualunque lingua in diretta.

R.P.D.  Perché abbiamo detto una cosa così stupida? Questo libro, che potremmo definire un instant book, nasce da una giornata organizzata nell’ottobre del 2023 dall’Ambasciata d’Italia a Seul, in Corea del Sud, al quale hanno partecipato una serie di relatori, architetti e designer italiani e coreani. A partire da questo è stato generato questo libro, pubblicato lo ricordo da Electa, e in uscita in questo periodo, è un libro nuovissimo. Ci potresti raccontare qualcosa anche del vostro rapporto come studio con la Corea?

I.M.  Sì, infatti proprio così. È partito da questo momento di incontro in Corea a cui noi siamo molto legati da molti anni. Sia io che Mara (Servetto, ndr) la mio socia, lavoriamo in Asia ormai da tanto tempo. Io insegno anche in università molto bella, a Busan. È una città molto bella, la seconda città più grande della Corea, sul mare del Giappone. In una scuola di design molto interessante. Abbiamo un rapporto con l’Asia da molti, moltissimi anni. E in questo incontro abbiamo parlato del tema dei musei, che è un tema come dicevi tu che trattiamo da tantissimi anni e quindi da lì è nata l’evoluzione di questo libro, in realtà era già da molto che stiamo lavorando su questo tema del museum seed. È un concetto che ormai abbiamo coniato quasi tredici anni fa in un viaggio in Cina con una storia abbastanza divertente. Poi è nata l’idea di scriverlo realmente questo libro, visto che erano tanti appunti. Da lì è nata questa idea di questo manifesto sul futuro dei musei, sul futuro della cultura dei musei. Ovviamente con partecipazioni di incroci tra l’Italia e la Corea, perché era interessante il loro modo di lavorare nel mondo della cultura. Quindi ci interessava poter incrociare questi due aspetti, anche per comunicarli in modo più allargato.

R.P.D.  Senti, ma il libro parla ovviamente di musei, ma ne parla in una maniera ampia lata. E infatti anche i titoli dei capitoli sono molti, cioè ogni capitolo in realtà è un libro a sé, perché si parla di museo, non solo come museo. Quello che noi conosciamo come museo, come spazio museale, ma si parla di museo come luogo di incontro.

I.M.  Sì, in realtà siamo partiti da un po’ di domande che ci sono state fatte. Noi lavoriamo da tanti anni nel mondo del museo. Ma che cos’è? Che cos’è il museo, oggi? A che cosa servono i musei? Dove stiamo andando? Quale sarà il futuro del museo? Chi ci andrà nei musei? Ci andranno degli umani o delle altre persone? Ci andranno delle altre entità? A che cosa serviranno i musei? Ecco tutte queste domande. Poi in che modo il museo dialoga con la città? E quindi questo libro si pone una serie di questioni che poi sono aperte. Quindi questo libro è concepito in realtà come un magazine, come un tavolo di dialogo. Perché sono, come dicevi giustamente tu sono otto punti, otto capitoli. Ma questi otto capitoli sono un po’ anche un manifesto su quello che noi immaginiamo potrebbe essere il futuro. Abbiamo messo questi otto punti posti un po’ come domande, ma anche un po’ come diciamo caratteristiche verso il quale bisognerebbe andare nel futuro, forse, dei musei. E queste otto domande le abbiamo poste a degli altri personaggi e quindi il libro è concepito come un magazine perché contiene dei contributi diversi. Sono quindici contributi tra curatori, architetti, designer, storici storici dell’arte piuttosto che psicologi. Perché abbiamo anche tutto un tema legato a quello che museo coinvolge la pubblicità della psiche. Ma anche dal punto vista della cura c’è uno spazio che tratta il tema della cura delle persone all’interno degli spazi espositivi, del rapporto con la città. E poi ci sono appunto esperti, giornalisti nell’ambito della parte culturale. Quindi ponendo questioni. Abbiamo chiesto loro di stare abbastanza stretti nei contributi, però abbiamo iniziato a discutere di questo. È un libro che veramente dialoga. È una sorta di libro aperto che apre delle tematiche sul tema della cultura. E ovviamente si pone il problema di cosa sarà il Museo del domani? Verso dove andremo? E non solo il museo. Perché anche la città diventerà un museo a cielo aperto. Quindi sono questi i temi che abbiamo voluto trattare.

G.D.O.  Uno dei temi che vengono affrontati nel libro è il museo come luogo di produzione un luogo che non si limita insomma a esporre una cultura materiale e immateriale, ma che diventa sempre un rinnovatore verso le identità della comunità. Ci racconti un po’ questa questa dimensione di produzione?

I.M.  Si, l’idea è anche proprio questo che dicevamo all’inizio. Che cosa serve al museo? Ovviamente una volta ai musei per conservare, per ispirarci. Quindi, si passava da questa idea della conservazione, della tutela, oggi il tema del museo forse un po’ è cambiato. E il museo passa ancora da questa idea, se vogliamo del museo “cassetto”, dove devo mettere le cose, proteggerle dagli altri, ad un museo che diventa un pochettino più un giardino, un luogo aperto da coltivare, un luogo da contaminare. Come diceva Calvino “la fantasia è un luogo dove ci piove dentro”. Ecco, forse il museo, un posto dove ci deve piovere un po’ dentro, nel senso di incrociare un po’ tante tematiche. Questo perché? Perché la gente approccia in modo diverso e approccerà in modo diverso il museo (…). Non sarà più l’idea di andare a vedere una cosa ma quella cosa già vista molte volte prima attraverso strumenti digitali, piuttosto che avrà avuto la capacità di affrontare lo stesso tema in altri modi. E quindi il tema del museo si pone in modo un po’ differente. L’altro tema è quello, dicevamo prima, ma che cos’è il museo? Un museo può diventare un po il terzo spazio, il terzo spazio della città. I musei sono luoghi in cui ci si può incontrare, mentre non devo andare a visitare il museo, dev’essere un luogo in cui io mi incontro con il museo e incontro anche gli altri. Terzo spazio che cos’è? Una volta il terzo spazio erano le edicole nelle città, ci si incontrava nelle edicole, nelle piccole piazze per parlare un po’, per tirare fuori degli argomenti da trattare o piuttosto dal parrucchiere. Ecco, io sono abbastanza pelato, non vado spesso dal parrucchiere, sono senza capelli, ma il parrucchiere una volta era un luogo in cui ci si incontrava. Era un luogo un po’ dove casualmente partivano delle discussioni. Ora, non voglio paragonare questo al museo però un luogo in cui ci si possa incontrare è sicuramente interessante. E allora da qui nascono alcune variabili. Una variabile importante è quella che il museo deve produrre dei contenuti cioè deve produrre dei dialoghi, deve produrre delle cose non solo per esporre ma produrre contenuti. E oggi, attraverso nuove tecnologie, attraverso gli archivi che sono molto vecchi, sappiamo che solo poche opere sono esposte rispetto a quelle che sono negli archivi. Si possono trovare dei modi per attivare il museo e trasformarlo in un luogo un po’ più teatrale in cui io posso andare al museo come andare a teatro, quindi mi ritrovo nel museo in questo spazio, questo è un po’ il concetto su cui abbiamo improntato questa idea di museo come produttore di contenuti.

R.P.D.  Quindi ci stai dicendo che il museo in realtà, oltre alla sua funzione conosciuta da tutti, può essere effettivamente un luogo di relazione, di incontro? È un luogo anche un po’ mancante, oggi come oggi nelle città?

I.M.  Certamente, è proprio quello. Il museo è un luogo, è un luogo di consapevolezza, un grande luogo di consapevolezza. Noi dobbiamo usare i musei. In fondo i musei si vanno a vedere per conoscere noi stessi. In fondo è una cosa fondamentale. Truffaut diceva: “L’arte serve a noi stessi per conoscerci meglio”, e devo dire che è bello andare nei musei per incontrare sé stessi e incontrare gli altri. Quindi c’è una sorta di nuova sacralità nei musei, no? La gente non va più nelle chiese, ma si ritrova in una sorta di collettività che è quella del museo in cui ci si parla, ci si incontra, (non va più così tanto nelle chiese) e quindi il tema è un po’ quello. Quindi il museo deve ovviamente cambiare la progettazione del museo. Io poi mi occupo di fare, io nasco architetto, sono architetto, quindi mi sono occupato di molti spazi espositivi, sia permanenti che temporanei. Da molti anni lavoriamo nell’ambito della cultura e il tema di come fare vuol dire come ospitiamo questo nuovo modo di incrociare. Quindi il tema non è più attaccare le opere a un muro, ma è che cosa succede tra le opere e chi entra dentro questo spazio o cosa succede tra le persone stesse all’interno di uno spazio. Questa è una cosa su cui noi ci siamo concentrati molto. Io credo che sia veramente un elemento centrale nel futuro dell’Italia, nel futuro del mondo. La cultura preservata ma preservata per capire perché siamo a questo mondo e quindi contribuire. I musei contribuiscono attraverso il design. Io sono convinto che non è solo un problema gestionale, ma è un incrocio tra tutte queste variabili.

R.P.D.  Hai usato una parola chiave che è “sacro”, molto interessante. Allora ho pensato a Napoli e ai suoi spazi. Infatti a Napoli ci sono spazi profani, cioè le chiese e spazi sacri, il bar. Sei d’accordo?

I.M.  Assolutamente. Per quello che dicevo il terzo spazio con questo terzo spazio dove ci si incontra, però deve avere una sua sacralità, deve avere una sua etica, un’etica di racconto. Ecco, qui davvero è un tema molto, molto interessante. Come andare anche verso un futuro, per dialogare con il visitatore di oggi e anche con quello di domani, in un modo etico.

G.D.O.  Allora parole chiave che vengono fuori sono “etica”, “sacro” e poi hai accennato alle nuove tecnologie che voi utilizzate molto, anche nei vostri progetti, di cui si parla molto in questo libro. Mi chiedo qual è il rapporto e come si affronta l’equilibrio tra l’uso delle tecnologie digitali e invece uno spazio che ha un grande contenuto culturale. Insomma, un equilibrio che insomma può facilmente crollare verso magari il parco giochi invece di essere qualcosa di coinvolgente, attivatore di emozioni.

I.M.  Questa è una domanda davvero molto calzante, noi usiamo molto le nuove tecnologie, ma perché siamo inseriti in questo mondo, e quindi sarebbe come dire poco colto non usare quello che abbiamo, gli strumenti che abbiamo a disposizione. Il vero problema è che molte volte le tecnologie sono usate come fine e non come strumento. Cioè noi non dobbiamo calarci in posti, in un altro libro ho scritto di questo rapporto tra il museo chiodo e il museo luna park. Noi dobbiamo spostare il baricentro dal museo al chiodo, che è quello ovviamente del museo cassetto di conservazione dove io entro dentro e attacco alle pareti, gli oggetti alle pareti. Io li metto lì, mi metto le mani in tasca e mi aggiro per un luogo dove le didascalie sono scritte in corpo dieci e non capisce nessuno. Sono scritti per altri curatori, non per il pubblico. E poi l’altro museo, che invece sono immerso in proiezioni con dei pixel giganteschi che mi coprono il corpo e sono immerso dentro girasoli di Van Gogh piuttosto che Klimt, dove magari non capisco nulla. C’è una via di mezzo. La tecnologia è uno strumento, la tecnologia serve per aumentare la sensitività del visitatore. Quindi noi abbiamo per esempio l’accessibilità, l’accessibilità culturale, ma anche l’accessibilità cognitiva. E tutto questo va studiato. Non si può pensare che tutti i visitatori abbiano lo stesso tipo di livello percettivo. Non è così e la tecnologia serve a questo. Oppure la tecnologia serve per entrare di più nelle storie, per catturare le storie, per catturare anche i giovani nel racconto. Ma la tecnologia deve avere una sua etica. Noi abbiamo per esempio realizzato un museo, il Fryderyk Chopin Museum di Varsavia, ormai più di tredici anni fa, dove ovviamente un museo che ti parla, più che parla ti suona perché è un museo di un musicista dove la concezione è che il musicista fosse quasi ancora vivo, mentre nelle Storie di Chopin entri nella sua musica e si capisce il perché sono state generate in quel modo, il rapporto con la natura, con il rumore del vento sulle foglie piuttosto che col rumore degli uccellini che cinguettano. Ecco, questo è il racconto che serve per entrare di più nelle storie. E questo ovviamente aumenta rapporto con la memoria, con la conoscenza dei luoghi e ovviamente con un po’ di teatralità. Che serve per portare dentro questa consapevolezza. Questo è l’obiettivo. Sono d’accordo che la tecnologia utilizzata come mero fine, ogni tanto vai a vedere queste…ormai le chiamano tutte esperienze! Ormai dire la parola esperienza, che poi qualunque cosa è una buona esperienza, un ottimo dolce, è una buona esperienza, un pezzo di cioccolato. Ma sto dicendo il vero tema è che è un po’ sovra stimato. Questo rapporto tecnologico è diventato solo spettacolare. Io credo che noi possiamo usarlo in modo, ovviamente bisogna saperla maneggiare questa tecnologia.

R.P.D.  Ci sta dicendo quindi che è importante l’esperienza sensoriale, la sensorialità, cioè un museo anche di opere da guardare, forse non sono solo da guardare.

I.M.  Ma certamente, anche perché poi quello che interessa, diciamo che poi, occupandocene, sappiamo che la media dell’attenzione davanti a un’opera di un grande museo sono 5-7 secondi che un visitatore sta davanti ad un’opera d’arte. Provate a pensare cosa può imparare o memorizzare o portarsi via quando ha visto quattro opere, la sesta e la quinta non se la ricorda più. E quindi il vero tema è entrare in un’interazione empatica con il museo che vuol dire sensorialmente capire di più. Raccontarmi più storie, quindi, vuol dire poter toccare, poter ascoltare, poter annusare e poter poter esperire in modo più profondo le opere, quindi magari raccontandotele meno, ma raccontando in modo ciclico. Per esempio i musei sono luoghi, secondo noi, come dicevo prima, dove tu devi tornare. Questa bulimia da museo dove io vado dentro e vedo tutto è assurda, è impossibile. Molto più interessante è poter andare a ritornare in un museo. Chiaramente, se io sono in un viaggio all’estero molto lontano, è più complesso però che i musei ci aiutino a conoscere meglio opere e entrare meglio in racconti singoli. Per esempio, è capitato spesso di esporre opere singole, raccontarle in un modo più approfondito e queste entrano di più nella memoria collettiva, nel rapporto col visitatore.

R.P.D.  Il ritornare nel museo è importante per il visitatore di passaggio, ma forse ancora più importante per coloro che vivono in zona.

I.M.  Assolutamente! Quell’idea di terzo spazio che dicevamo prima, il museo deve diventare una sorta di casa collettiva. Le opere sono tue, devi andare a vedere le opere, ma potrebbe essere un museo. A noi è capitato di fare musei più di tecnologia, il rapporto con la cultura deve essere molto più esperito nel modo in cui devi trovarti più a casa, devi trovare questo luogo in cui dibattere, dialogare. Secondo me i musei sono luoghi di consapevolezza, sono luoghi di consapevolezza. Questa è la cosa più bella. Ovviamente devono essere un po’ ingaggianti. Non posso avere delle cose che non capisco, che non conosco, che non mi sono raccontate e in modo un po’ arrogante, tenute lontano da me, solo esposte per dire “guarda quella cosa è una cosa di valore, tu prima o poi la capirai”. Questo è sbagliato.

G.D.O.  In questo museo che cambia, cambiano gli ingaggi progettuali attraverso le nuove tecnologie, cambiano anche l’expertise che in qualche modo ci sono in tutte le competenze del museo. Quali sono queste competenze che servono per progettare il museo contemporaneo?

I.M.  Beh, più che altro servono tante competenze insieme e credo che questa è un’altra cosa che molte volte non si fa. Noi, per esempio, siamo più preoccupati di realizzare l’opera architettonica come fosse un grande manufatto, più di portare le grandi opere e i contenuti dentro e portare delle opere di valore e magari meno nel momento di comunicare e meno nell’ordinamento. Bisogna lavorare in team, è un lavoro di squadra dove ovviamente ci vuole una regia. Secondo noi la museografia su cui noi lavoriamo, un tema fondamentale e ci sono dei modi per affrontare il tema in un modo diverso, dei modi per partire tutti insieme. Quindi non è solo il tema di avere un bell’oggetto con alcune opere e poi sperare che il pubblico venga. È un sistema di trasformazione degli spazi che comporta tante competenze. È un po’ come fare un film. Ecco, è un po’ come fare un film. Ci vuole un regista che concepisce il film, però poi ci sono i grandi registi, noi che sono bravi nel fare la fotografia piuttosto che nel trucco e parrucco, piuttosto che nella scenografia. Però devi mettere insieme tutte queste variabili ideale metterle tutte insieme dall’inizio, quindi lavorare su dei tavoli che hanno questo tipo di approccio che è multidisciplinare, è un progetto integrato. Io che faccio l’architetto mi occupo di interni di queste cose qua, non è possibile ragionare in un modo di oggettualità ma è veramente ragionare in modo di sceneggiatura di interni. Cioè devi capire come progettare queste sequenze, quindi lavorare con la luce, con le tecnologie e con gli oggetti, con l’interazione e con i tempi. E tutto questo, ovviamente, è un lavoro che si può fare. Bisogna studiare e lavorarci su. Noi in Italia diamo un po’ per scontato perché abbiamo delle opere talmente bene che la gente viene a vederle. Poi ci stupiamo quando  al Louvre ci vanno molte più persone piuttosto che in certi musei. Facciamo Pompei in Inghilterra e vanno più che da noi, perché? Perché il sistema del dialogo che ingaggiamo col visitatore non è così studiato insieme. Ecco, questa è una cosa che secondo noi questo è una grande opportunità per il nostro Paese.

G.D.O.  Parlare dell’Italia e anche di San Marino ci mettiamo anche noi dentro, che sono Paesi contraddistinti anche da tanti, tantissimi musei. Ogni città ne ha tanti e hanno delle forme stabilite. Il museo che si rinnova, il museo che cambia sotto queste tematiche di cui stiamo parlando oggi è un museo che viene integrato da nuove progettualità o che deve essere completamente ripensato da zero?

I.M.  No, no, è anche integrato, anche noi lavoriamo su tantissimi musei che sono in rifacimento, in adattamento. Il tema è porsi il problema di quello che succede all’interno dello spazio e dare dei servizi a questo spazio. Quindi questa nuova ospitalità deve essere cambiata. I ritmi e i tempi devono essere cambiati. Per esempio un rapporto tra permanente e temporaneo. No, siamo le opere, un rapporto importante noi abbiamo concepito un museo del Compasso d’Oro a Milano, museo dell’ADI un museo del Compasso d’Oro che abbiamo concepito in un concorso vinto nel 2014 e realizzato nel 2021, dove c’è una forte integrazione tra la collezione permanente e racconti temporanei, per cui non c’è la sala per il temporaneo. Sei immerso nel museo e ti vengono raccontati dei momenti temporanei su alcuni argomenti specifici. Questo fa sì che il museo si rinnovi, che il museo possa avere un dialogo tra la sua collezione e quello che vuole andarti a raccontare di volta in volta.

R.P.D.  Grazie Ico Migliore, abbiamo parlato del libro Museum Seed che è appena uscito per Electa e questa è stata la prima puntata di Quasi Quasi Chiamo, Incontri alla Radio, un nuovo programma dedicato al design di Usmaradio a cura di Elena Brigi. Io sono Roberto Paci Dalò e qui con me c’è Giorgio Dall’Osso. Buon proseguimento d’ascolto con i nostri programmi e grazie Ico Migliore per questa conversazione.

I.M.  Grazie a voi e speriamo sempre in più in dei musei che siano dei semi e non dei cassetti privati.