Angela Rui e Riccardo Blumer

Riccardo Blumer e Angela Rui – Design e postumanesimo

ITA - #architettura #comunità #postumanesimo

Visiting

durata 18:00

VISITING – Conversazioni attorno al design
un podcast di UNI.RSM DESIGN TALKS
a cura di Alessandro Renzi ed Emanuele Lumini
advisor Alessio Abdolahian
host & speaker Massimo Brignoni – Alessandro Renzi

Riccardo Blumer

Riccardo Blumer si laurea in architettura al Politecnico di Milano, dopo aver collaborato con Mario Botta a Lugano, ha aper­to nel 1988 il suo studio professionale a Morosolo (Va), nel quale si occupa di architettura, di product, interior ed exhibit design. In particolare, nel campo del design ha avviato da anni una ricerca di carattere sperimentale collaborando con aziende come Alias e Poliform. In qualità di docente ha collaborato con ESAG di Parigi, Domus Academy, Istituto europeo di design, Scuola Politecnica di Milano, Iuav di Venezia. Attualmente insegna all’Università degli studi della Repubblica di San Marino e all’Accademia di architet­tura dell’Università della Svizzera Italiana di Mendrisio (CH). Nel 1996 viene realizzata una mostra sul suo lavoro presso Moebel et Function di Parigi e pubblica­to il libro Riccardo Blumer. Esperienze di architettura e design, Skira, Milano 1996; tre anni dopo un’altra mostra al Centro Culturale Svizzero di Milano e il vo­lume Intersezioni presentano nuovamente il suo la­voro. Suoi lavori sono stati premiati in più occasioni, ad esempio nel 1997 con il Design Preis Schweiz (Lucerna), nel 1998 con il Compasso d’Oro–Adi, nel 1999 con il Catas (Treviso), nel 2000 con il premio Observeur du Design (Parigi).

Riccardo Blumer

Angela Rui

Angela Rui è una curatrice e ricercatrice di design con sede a Milano. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Exhibition Design presso il Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura (2011). Ritiene che il design sia una pratica critica che problematizza i modi convenzionali di abitare e sperimentare il mondo e che i designer possano operare per riconoscere i beni collettivi e progettare per una società più che umana. Tra gli altri progetti, ha recentemente curato la mostra e il programma AQUARIA. Or the Illusion of a Boxed Sea al maat (Lisbona, 2021); ha co-curato I See That I See What You don’t See, il padiglione olandese per Broken Nature – XXII Triennale di Milano (2019), e Faraway So Close – 25th Ljubljana Design Biennial (2017). Attualmente insegna “Pedagogies of the Sea” al Master GEO-Design – Design Academy Eindhoven (NL), Exhibition Design al Master in Interior Design della NABA (Milano) e Critica del Contemporaneo all’Università di Design di San Marino.
Scrive regolarmente per commissioni editoriali sulla critica del design. I suoi scritti sono apparsi in pubblicazioni e cataloghi editi da diverse istituzioni, tra cui il MAXXI (Roma) e il CCA (Montreal), ed è stata membro della commissione di progetti di ricerca teorica, storica, critica ed editoriale per ADI Design Index (2013-2015). Ha curato l’edizione 2015 di Operae, il festival di design indipendente con sede a Torino, con il titolo HERE/NOW. Con Effetto Presente. Con Meeting Mirabilia ha condotto una serie di interviste in diretta dagli studi di LiveOn4G (Telecom) per discutere dell’uso della poesia, del sogno, dell’incertezza, della natura e del desiderio come nuove piattaforme per il design (2014). Per il Triennale Design Museum ha curato la mostra e il catalogo Ugo la Pietra. Disequilibrating Design (2014). È stata design editor della rivista Abitare (2011-2013) e ha curato il progetto editoriale della rivista Icon Design (Mondadori, 2015-2017).

Massimo Brignoni    Buongiorno ad Angela Rui, curatrice di Design e buongiorno a Riccardo Blumer. Due pezzi da 90 e soprattutto, bentornato Ricardo, che dopo tanti anni è di nuovo in questa scuola. Riccardo è stato nei primi anni dalla fondazione di questa scuola una figura importantissima perché oltre a insegnare ha anche dato un po’, diciamo, una traccia da seguire in questi anni di sua assenza.

Chiedo ad Angela se mi aiuta a fare una piccola intervista a Ricardo. Riccardo insegna, è stato direttore fino all’anno scorso all’Accademia di Architettura di Mendrisio. È ancora professore lì. Io lo definirei se sei d’accordo, Angela, il più eclettico professore, designer, architetto più eclettico degli ultimi quindi, venti anni. O perlomeno, secondo me. Si è confrontato in questi anni da vari punti di vista in varie questioni che riguardano il progetto, quindi la materia, la natura, le forze, lo spazio, il corpo, il movimento. Sempre in maniera magistrale, devo dire, ha saputo tenere insieme sperimentazione poetica, narrativa e trasversalità tra le discipline e le arti del progetto. Quindi la prima cosa che gli chiedo, facendo riferimento a un suo famoso progetto che è quello della “Leggera” che risale già agli anni ’90, se non mi sbaglio…

Riccardo Blumer    Devi dire che una sedia…

M.B.    Esatto, un bellissimo progetto di una seggiola, la “Leggera” per Alias, che cosa collega nel suo percorso diciamo da designer e professore, questo progetto con le performance che vediamo negli ultimi anni nate dal lavoro con gli studenti a Mendrisio?

R.B.    È una bella domanda, di cui non ho una risposta precisa. E l’insegnamento colpevole è San Marino, in gran parte perché a un certo punto tu cominci a insegnare e l’insegnamento è una atelier completamente diverso da quello professionale, dove tu hai la possibilità di aprire i confini, non hai e sei come dire anche da solo, di fronte al tema della creatività, perché sei da solo, nel senso che il programma l’università “te lo fai”, dopo e il direttore che decide se va bene o no, però.

Questa cosa è il tema per me dalla sedia, se vuoi la continuità rispetto a queste performance che tu citi, che sono solo delle mise-en-scène di un esercizio semestrale che a me piace fare pubblico, soprattutto con il primo anno, che sono 60 o 120 studenti. Quindi c’è tutto un tema, anche di organizzazione spaziale che mi piace molto, di strumenti, ecc. e la relazione corpo, spazio o direttamente corpo noi che ultimamente mi intriga ancora di più devo dire e quindi la sedia, se vuoi, è l’impronta magica quando ti vien bene, perché non tutte le sedie ti vengono bene, alcune sono veramente hanno senso in sé, altre han senso solo se le usi, ecco a me piacerebbe fare delle cose che hanno senso in sé.

M.B.    Certo, infatti, mi viene in mente una delle ultime pubblicazioni che mi hanno mostrato poco fa, dove è proprio la relazione tra il corpo e la seduta e la seggiola, il soggetto e…il nudo!

Angela Rui    Eh sì, qui mi inserisco. Io volevo proprio farti questa domanda anch’io, questo libro che trovo molto bello Riccardo, ma come mai hai deciso di utilizzare il corpo nudo?

R.B.    Il tema del nudo è che: tu quando fai un oggetto e lui esce con una forma se ce la fai e il lavoro è sempre quello di togliere, fondamentalmente. La difficoltà è sempre quella di ridurre le complessità costruttive di trovare sempre una forma che sia una sintesi tra le complessità e la bellezza, la comodità. Quindi tutto un lavoro a togliere e quando lui è finito è nudo, però è finito.

Invece noi nasciamo nudi e non siamo finiti. Il lavoro nostro comincia al contrario, cioè dove noi nasciamo cominciamo ad aggiungere, il che non è sbagliato, va benissimo. Però mi piace questa parola nudo per definire un limite che l’oggetto ha perché non puoi più aggiungere. Al corpo, invece non puoi più togliere, perché tu da nudo è solo il chirurgo che può intervenire, oltre. Non puoi più fare niente, no, puoi solo aggiungere un tatuaggio, decorarsi, ma non poi più oltre. Mi piaci questa zona di limite tra queste due cose.

A.R.    Infatti, è molto interessante e forse anche molto legata al lavoro che tu fai con alcuni ragazzi dove li spinge proprio utilizzare il corpo come fosse quella soglia in cui appunto ti spogli di qualcosa perché chiede una prossimità tra i corpi che è anche molto intima.

R.B.    E molto intima, sì!

A.R.    È una novità figurativa, ovviamente nel momento in cui li fai abbracciare qualcosa succede e ci si spoglia di una serie di sovrastrutture.

R.B.    Che sono quelle più psicologiche ma che sono anche quelle in aggiunta…divertente! Cose che ad esempio l’animale sembra non avere come problema. Siamo dei grandi costruttori di complessità aggiunta!

M.B.    Esatto.

A.R.    Tornando all’insegnamento, Riccardo, ma volevo chiederti questo: io spesso penso che si insegna per imparare no, cioè il contatto con le giovani generazioni in realtà non è solo una forma di trasmissione di conoscenza, ma è proprio per riuscire a capire le generazioni che si susseguono a noi, ecco come la vedi questa cosa. Cosa significa per te insegnare?

R.B.    È un tema complesso che non mi sia ancora dipanato, è comunque imparare. Ok, questo per me l’occasione è di imparare. Ora il tema è che se impari o no dagli studenti, questo è un grande tema. Credo che non esista una direzione univoca. Quando ti dicono “che fortunato che sei, che lavori con dei giovani”, non è vero, è una disciplina lavorare coi giovani perché loro ti danno qualcosa se tu sei capace di costruire delle condizioni, se non ti tengono fuori.

Il vero tema è entrare nei giovani dando degli strumenti che gli permettano di esprimersi, perché poi noi facciamo un lavoro di creatività, fondamentalmente. Questo è molto difficile, devo dire. Molte volte io li sento anche contro, gli studenti. Ho imparato negli anni che non devo giudicarli e ho imparato che devo essere capace di entrare nella loro – non dico intimità che forse è troppo – però come dire di aprire un rapporto di fiducia per cui loro si mettono in gioco, ecco. Questa è una parola che mi piace molto. Lo studente che si mette in gioco non è il “cacciatore di crediti” che è un grande tema oggi, perché molti studenti sono cacciatori di crediti e sono cacciatori di un posto fisso dopo. Allora l’università soprattutto non è un posto per creare posti di lavoro, secondo me. È un posto di conoscenza del mondo, almeno io lo vedo così.

A.R.    Penso che in questo, nel modo in cui tu vedi questa relazione tra professore, se vuoi, e studente ci sia anche una rivisitazione del ruolo del professore, come lo definiresti oggi il ruolo del docente?

R.B.    Perché come devono mettersi in gioco gli studenti devono mettersi in gioco i professori! Perché è anche non male avere una filastrocca che tu devi… Sto imparando moltissimo dai miei figli, che hanno tutti intorno ai 30 anni, anche oltre. E come padre, tu hai il sentimento di paura che non facciano quello che vada fatto di giusto nella vita. E poi quando ti abbandoni da quelle paure lì, tu di colpo vedi che da loro può imparare. E c’è come dire un flusso reciproco in questo senso, perché loro si confrontano con te, è buffo, no? Anche il tema del voto che è interessante, se è quello. Se è come dire un rapporto di confronto per cui che loro accettano. Quindi sì, il professore è come il padre, nel mio caso non so la madre, ma penso che sono simili sotto certi aspetti le condizioni. E va assolutamente rivisto in questo momento, almeno, ma va messo in discussione l’università come istituzione. Tutte le istituzioni hanno un problema in questo senso, credo più grossa ancora ce l’abbiano i licei e le altre scuole dove c’è un programma istituzionale. Ecco, è più complessa lì la cosa, però all’università la vedo anche come una bella occasione.

M.B.    Rimanendo in questo tema, nella relazione tra professore e studente, che mi sembra una bellissima cosa che hai detto, c’è un’altra questione che è quella della velocità con cui le cose avvengono in questo periodo storico dal punto di vista dei cambiamenti climatici, delle relazioni tra le persone, della tecnologia, questa diciamo percezione che noi abbiamo delle cose che accadono, probabilmente è diversa da quella dei nostri studenti, no? Che cosa ti auguri per loro quando pensi al futuro rispetto a come tu hai vissuto quel periodo da studente?

R.B.    Io non mi sento tranquillissimo come uomo di 60 anni in questo momento, rispetto a questo mondo che evidentemente ci delude sotto tanti aspetti e ci preoccupa anche e mi preoccupo anche di capire il senso dell’insegnare la creatività in un mondo che fa ancora la guerra, ad esempio, questa roba veramente…e quindi, c’è un allaccio con la storia che va tenuto fedele, per cui il dadaismo nasce durante la prima guerra mondiale e di colpo le grandi scuole Bauhaus e Vchutemas (Вхутемас) nascono in momenti di grandi rivoluzioni, hanno aperto delle grandi porte, per cui bisogna considerare il nostro mestiere come un mestiere “di trincea”, anche se si occupa di questioni che apparentemente possono sembrare estetiche. Ma questa è una visione ingenua della bellezza perché l’uomo e questo strano animale che ha bisogno di un rapporto con la parte che noi chiamiamo estetica, che delle volte è più importante di quello della sopravvivenza, cioè l’uomo si suicida facilmente negli animali è un po’ più difficile. Non che non esista…

A.R.    Ne esiste uno che si suicida, solo uno. Il delfino.

R.B.    Ecco, che probabilmente sono anche quelli che hanno più intelligenza. Si dice, no?

A.R.    Più coscienza anche!

R.B.    Io farei qualche domandina all’Angela!

No, perché l’Angela che nasce da un mondo simile al mio, anche se con una differenza notevole di anni, che però è interessante anche in questo senso, negli ultimi anni io l’ho incontrata e per me è stata un’apertura di meraviglia su dei grandi temi che non sono “far sedie” che non sono corpo umano, che sono l’ambiente però ci entra poi con un sistema… e allora io mi chiedo sempre lo faccio grazie a lei questa parola “design”, se deve aver dei limiti. Mi piace dire che tu sei, come dire, una parte estrema del design e poi c’è dall’altra parte c’è non so, quello che disegna le forchette. Ecco che c’è modo e modo di disegnare le forchette. Sei d’accordo su questo?

A.R.    Sono molto d’accordo a tal punto che è anche molto difficile spiegare che cosa faccio quando io, quando qualcuno mi chiede che cosa fai nella vita, mi occupo di design. Curo mostre di design e quindi subito mi chiedono consigli sul divano di casa? No, e quindi è molto, molto difficile chiarire che cos’è il design e che cosa può essere il design che in Italia è stato proprio una parola che ha istituito, ha la sua immagine sul prodotto, come riferimento. Mentre in realtà dovremmo pensare al fatto che design “tu design”, è un verbo attivo! Il progetto, il progettare in realtà. E poi c’è un altro grande paradigma che è quello che io cerco di de-costruire tutto il tempo, ovvero il fatto che noi pensiamo che l’evoluzione sociale o del mondo avvenga sempre attraverso anche un progetto di una modernità che è sempre nuova e descrive qualcosa di diverso rispetto a quello che è stato prima.

È, come dire, una reazione naturale al superamento delle crisi. È anche vero che però, se si va indietro o si guarda qualche secolo indietro, la storia che è definita storia contemporanea qualche secolo ha pochissimo rispetto alla storia dell’uomo. E mentre noi tante cose le abbiamo fatte anche prima delle grandi rivoluzioni industriali, anche prima del periodo vittoriano dell’espansione dell’industria che in qualche modo ha sancito una separazione tra noi e l’ecosistema di cui facciamo parte e appunto, la natura. L’industrializzazione del mondo che poi qualcuno combina con questa idea generale di design del progetto, ci ha messo in crisi. Ma noi non lo riconosciamo più, perché c’è anche il problema di trasmissione della storia, che è sempre una storia recente mentre oggi i temi legati appunto alla regionalità, a delle pratiche, diciamo territoriali, in connessione con la natura, vengono riprese e vengono rilette ma quasi con una certa, come potremmo definirla, con una certa curiosità, quando se noi andiamo indietro di due o tre generazioni, quello di cui parliamo oggi è scontato, è ovvio per una persona che ha coltivato la terra, ha curato un giardino o ha solo in qualche modo fatto l’artigiano. Quindi è proprio chiaro che c’è questa disconnessione totale. Allora, quando io parlo di design, in realtà parlo di questo: parlo del paradigma storico su cui si fonda questo termine. Quindi per me è sempre una forma di de-costruzione del mondo che è stato disegnato.

R.B.    Un cambio di paradigma sì, qualcosa che dici sempre.

M.B.    Ma quindi, hai ragione tu, è un momento in cui siamo alla ricerca di una ricucitura col passato ma siamo anche in un momento dove c’è una grande spinta verso quello che viene chiamato il post umanesimo, cioè quello che diventerà l’uomo…

A.R.    Sai, più è pervasiva la tecnologia…

M.B.    Come le connetti queste due cose?

A.R.    Penso anche molto facile. Cioè, noi siamo passati da una epoca meccanica a una fondamentalmente tecnologico digitale che si va avanti e più la tecnologia è pervasiva ma invisibile, e quindi nello scomparire a livello di immagine è come dire lo spazio si libera nuovamente e quindi quando si parla di questa riconnessione con la natura non è mai solo una sensazione nostalgica di tornare indietro e non so, occuparti del tuo orto, anche se è stupendo, ma è sapere che oggi si coltiva la campagna. La campagna non è più quella immagine bucolica che tutti immaginiamo ma è un territorio estremamente industrializzato e è gestito dalle app, per esempio. E a distanza. Quindi dove l’uomo e il lavoro dell’uomo non esiste più e quindi si creano questi vuoti se vuoi, in cui per me il vuoto è sempre un’occasione estremamente felice di progetto, no? Quindi in quella dimensione, in quello spazio che si crea proprio perché è stata colmata da un avanzamento sociologico, tecnologico e così via. Forse lì si può agire in questa specie di commistione tra il fatto che recuperiamo l’idea che facciamo parte di un grande ecosistema. Penso al virus (Coronavirus, ndr), no? La necessità di isolarci era proprio come dire la constatazione che noi siamo connessi alla natura, no? Siamo parte di questa cosa, di questa relazione osmotico. Ecco, quindi ho da una parte guardare il sapere e ricostruire questi ponti ma in questo senso la tecnologia ci aiuta moltissimo. Quando si parla di post-umano c’è sempre la tecnologia, tutta la filosofia, eco-femminista nasce invece dalla prospettiva appunto del robot, del cyborg, di questa strana commistione tra carne e tecnologia e non solo.

M.B.    Sì, forse questa cosa che dici tu, che è quella di riscoprire il progetto all’interno di questi spazi vuoti che si creano, è proprio lì che forse è il post-umano, si verificherà di ritrovare una nuova identità che ti mette in relazione con quella che è la cosa naturale, con la cosa digitale tecnologica.

A.R.    Sì e anche con l’idea di post-umano. Esatto, no? Lo leggiamo solo da un punto di vista tecnologico e invece andrebbe visto come un superamento della superiorità umana rispetto ad altre specie. Quindi, il post-umano andrebbe…

R.B.    Un neo umanesimo, nel senso di ritrovare un senso dell’uomo rispetto alle altre cose.

A.R.    Se vuoi anche un nuovo Rinascimento che non metta al centro l’uomo ma al centro la natura.

M.B.    Anche in vista del fatto che noi abbiamo occupato neanche una briciola del tempo del pianeta Terra. E ci saremo ancora per poco…

A.R.    Quindi se si parla di estinzione…

M.B.    Dopodiché faremo parte di un ciclo che probabilmente prenderà il suo giro.

Bene, se non ci sono altre domande…

R.B.    Grazie Rui!

A.R.    Grazie Blumer, a prestissimo!

R.B.    Evviva San Marino. Ciao, ciao.