Alessandro Piva - Podcast

Alessandro Piva – Cinema come racconto del reale

ITA - #cinema #realismo #documentario

Visiting

durata 22:19

VISITING – Conversazioni attorno al design
un podcast di UNI.RSM DESIGN TALKS
a cura di Alessandro Renzi ed Emanuele Lumini
speaker & host Riccardo Varini, Alessandro Renzi

Alessandro Piva

Nato nel 1966, Alessandro Piva arriva alla regia attraverso un percorso da fotografo, montatore e sceneggiatore. Cresce nel Sud Italia tra Salerno, Latina, Matera e Bari, dove trascorre gli anni del liceo e ambienta il suo esordio alla regia. Si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove si diploma in montaggio. Debutta come regista di cinema nel 1999 con LaCapaGira, presentato al Festival di Berlino, vincitore di numerosi premi tra i quali il David di Donatello, il Nastro d’Argento, il Ciak d’Oro. Altri lungometraggi del regista sono: Mio cognato, Henry, Milionari. Fonda nel 2001 la casa di produzione Seminal Film, con cui realizza film, corti e spot per campagne pubblicitarie, anche istituzionali come Matera2019-Capitale europea della Cultura.

Nel 2011 presenta il film documentario Pasta Nera, a cui seguono diversi lavori dello stesso genere, tra cui Santa subito, incentrato sulla vicenda di Santa Scorese, giovanissima attivista cattolica uccisa da uno stalker. Attualmente insegna Regia presso la scuola d’arte cinematografica della Regione Lazio “Gian Maria Volonté” a Roma e l’Accademia di Belle Arti di Bari.

Alessandro Piva - Biografia

Riccardo Varini  Usmaradio, al microfono Riccardo Varini, direttore del corso di laurea in Design Triennale. Buongiorno a tutti e a tutti, questo è Visiting per UNIRSM Design Talks e abbiamo il piacere di avere ospite qui con noi durante la settimana dei workshop, Alessandro Piva.

Alessandro Piva  Buongiorno a te, a tutti quanti.

R.V.  Alessandro Piva è uno straordinario regista, sceneggiatore e produttore cinematografico. Studiando il suo profilo vediamo che ha ricoperto moltissimi ruoli. Ti sei dato molto da fare! Devo dire che hai avuto anche grandissime soddisfazioni grazie ai pregevoli lavori che hai sviluppato. Mi farebbe piacere intanto sapere da te di che area geografica sei e come ti trovi in quelle zone?

A.P.  Anzitutto grazie per questo invito del quale veramente sono molto contento, perché è una realtà, questa di di San Marino e della sua università che non conoscevo. Anche perché, appunto, non sono di queste parti. Sono nato a Salerno sul Tirreno e poi, per vari motivi di famiglia, mi sono trasferito molte volte nel corso della mia gioventù, fino ad approdare a Bari nell’epoca negli anni del liceo e poi a Roma per studiare cinema al Centro Sperimentale di Cinematografia. E adesso, dopo tanti anni romani, sono tornato a Bari Sono molto contento di questo ritorno, è stata una sorta di richiamo della foresta, anche perché io a Bari ho girato i primi film importanti che mi hanno dato grande soddisfazioni. E penso di poter dire che con la mia terra di adozione io ho un rapporto speciale, forte. Penso di essere un osservatore o uno storyteller di quella terra prezioso per la Puglia e la Puglia è preziosa per me, per il mio lavoro, perché la capisco bene. Sono sintonizzato sulla sensibilità dei pugliesi e cerco di raccontarli come posso.

R.V.  Infatti, una delle cose che per me, visto che vengo da un’area geografica particolare vicino al confine con l’ex Jugoslavia (Trieste), il mix di lingue è una cosa molto importante. Ma oltre al mix di lingue c’è anche il dialetto. E tu hai utilizzato il dialetto barese anche come elemento forte della tua narrazione? In alcuni casi…

A.P.  Assolutamente. Forse questa tua ottica triestina si compara bene, coerentemente con la mia pugliese, perché siamo stati entrambi frontiera, voi, in maniera anche più drammatica in passato. Ma quando io mi sono affacciato al mondo del cinema e del racconto anche documentaristico, la Puglia era nell’Adriatico, la nuova frontiera. Dopo il crollo del muro, alla fine degli anni ’80 quindi, c’era una particolare curiosità per quella realtà dove sbarcavano clandestini, armi, droghe e c’era una guerra in atto in quell’epoca tra la finanza e i trafficanti.
Quindi quello che adesso è Lampedusa e quello specchio di mare del Mediterraneo, alla fine degli anni ’80 è stato l’Adriatico e la mia intuizione e la mia fortuna è stata di essere per certi versi al momento giusto, nel posto giusto. Ecco, il mio primo film e anche col secondo ho raccontato una realtà che gli stessi italiani non conoscevano bene, perché la Puglia era comunque una terra periferica, in qualche modo in quanto frontiera. E per raccontare la frontiera a cosa meglio della lingua se vuoi raccontare l’umore della strada della quella realtà, della pancia, di quella terra lì. E quindi il mio film iniziale (LaCapaGira) deve molta della sua fortuna anche a questa sfida di girarlo in un dialetto quasi inestricabile per chi non è di quelle parti. Parliamo di un dialetto che cambia nell’arco di pochi chilometri e quindi il film è stato mostrato e diffuso con i sottotitoli anche in italiano.
Questo ha portato molto fortuna a tutta la mia carriera e anche a quella regione che s’è iniziata a disvelare nella sua autenticità.

R.V.  Sì, infatti è stato anche premiato, questa è una cosa che ognuno di noi si porta con sé. Nel proprio percorso. Dà fiducia, evidentemente. Inizialmente, però, questo fatto di essere messo in gioco da diversi punti di vista in contesti molto diversi, con tecniche e tecnologie, visioni anche molto diverse, ti ha portato a sperimentare, ad avere queste esperienze nel mondo della produzione, anche cinematografica, nel mondo della produzione di un prodotto come un film, poi di documentari, ecc. In questo momento, facendo un po anche un’analisi critica tua, che cosa ti viene in mente rispetto ai documentari, per esempio come soggetto forte del tuo narrare?

A.P.  A me piace esplorare i generi, i mezzi e anche gli scenari da raccontare. Mi sono ritrovato in effetti a fare serie serialità televisiva, installazioni multimediali, radio e tante altre cose. Da un lato è dispersivo, non lo nascondo. Perché appunto, essendo una di quelle persone che si appassionano anche alla ricerca e alla sperimentazione, certe volte mi distraggo da quello che può essere anche inteso come l’obiettivo grosso, il film di turno.
Però fare cinema è veramente avere a che fare con una macchina molto complessa. Incontrare il pubblico non è sempre facilissimo, quindi costruirsi anche delle delle nicchie di esplorazione di nuovi territori. Per chi come me, è anche un po’ artigiano a cui piace, come agli artigiani, sperimentare anche con nuovi materiali e nuove formule di racconto. Ecco, a me piace un terreno che non ho ancora finito di esplorare.

R.V.  Questa è una cosa che devo dire. Si vede, si nota nei tuoi prodotti, chiamiamoli prodotti ma sono vere e proprie opere d’arte. C’è anche un tocco, un po’ di ironia mi sembra anche nel taglio che danno alcuni tuoi prodotti, appunto.

A.P.  Sì, devo dire che questo deriva probabilmente dalla mia provenienza geografica e sociale. Penso a Eduardo, per esempio, che è stato un maestro, in questo cioè noi italiani e noi meridionali forse in particolare siamo molto bravi a ridere delle nostre miserie, delle nostre tragedie, a trovare sempre una nota di colore e di leggerezza, anche nelle cose più più gravose che fanno parte della vita.
D’altronde, quindi sì, non dimenticherò mai che da spettatore innanzitutto mi piace chi non si prende troppo sul serio. Poi alle volte mi piacciono anche quei cosiddetti mattoni che come dire che ne so, il film di 4 ore con lentissimi movimenti di macchina o quando una cosa è coerente ed è intensa e sempre bella da fruire. Però personalmente non dimentico mai di quando sto dall’altra parte della barricata, per così dire, e quindi sono un po’ autore ma anche molto spettatore. Non trascuro il pubblico, certamente.

R.V.  Poi magari torniamo anche sulle tue esperienze personali d’autore. La cosa molto bella è l’occasione che abbiamo di averti qui con noi a San Marino e perché stai provando a capire che cosa sia questa macchina, questo organismo particolare, che è l’Università della Repubblica di San Marino e come si possa narrare al meglio questa macchina, questo organismo. Quindi ci piacerebbe sapere un po’ come ha impostato e quali sono gli elementi forti di questo tuo intervento.

A.P.  Questo workshop è una di quelle esplorazioni che coinvolgono anche personalmente il docente e come sempre, tutte le esperienze, anche formative, che funzionano, non sono prettamente frontali ma sono uno scambio di esperienze da punti di vista, osservatori ovviamente diversi ma mettere al servizio di dei giovani la propria esperienza e la propria curiosità è un modo per crescere tutti.
Quindi posta questa come come regola alla base di questo percorso formativo, l’idea era di raccontare l’università attraverso i suoi testimonial principali, che sono i docenti ma soprattutto gli studenti. Quindi abbiamo dato voce agli studenti ascoltandone le sensazioni ed impressioni, soprattutto le aspettative in ingresso e la realtà dei fatti a distanza di qualche anno dalla loro iscrizione. E questa è stata la prima lezione da fare agli studenti:
“ragazzi, il cinema, soprattutto il documentario, deve fare i conti col mondo reale con quello che ci dà la realtà”, e la realtà andava raccontata. Innanzitutto il corso di design, senza fare troppe forzature, visto appunto che condizioni di partenza. Noi ci siamo divertiti a registrare le sensazioni dei nostri ragazzi e anche di altri non iscritti al corso che abbiamo intercettato, per così dire, strada facendo. Riccardo, devo segnalare che insomma questa è una università che mi ha molto colpito. Io insegno, faccio tanta formazione, insegno all’Accademia di Belle Arti a Bari, regia, ma sono stato anche studente, vi ho parlato prima del Centro Sperimentale. Ho studiato anche in Germania, alla DFFB, una scuola di cinema e di televisione a Berlino e io uso sempre dire non c’è una scuola ideale, non c’è una scuola perfetta.
Anche tutti i miei amici che hanno studiato a New York, a Londra nessuno ha mai parlato di scuole ideali, perfette e messe a punto senza sbavature. Quindi io mi aspettavo anche da questa scuola, dagli umori dei nostri studenti, questo stato d’animo che poi fa parte anche della crescita, della formazione. Lamentarsi è anche un modo di raccontare di se stessi, della propria aspettative, le frustrazioni inevitabili che tutte le fasi della vita si devono affrontare.
Ma in questo caso devo dire che abbiamo confermato che non è la scuola perfetta, né corso di design né l’Università di San Marino. Però, rispetto alle lamentele che io ho sempre registrato in tutte le scuole con cui ho avuto a che fare, ripeto, sia da studente che da docente, mi sembra che il tasso di apprezzamento dello sforzo di voi docenti qui dentro è molto elevato. Il rapporto tra docente e studente in questa università è stupefacente, per me è molto incoraggiante. Si vede che il fatto di non avere grandi numeri da gestire per voi consente, insieme a sicuramente un’attitudine all’insegnamento, un’umiltà e anche, come dire, un’attenzione a tenere alta l’asticella mette in gioco i ragazzi e di sfida a dare il meglio e questa è una combinazione vincente secondo me.

R.V.  Grazie. Mi fa piacere sentirlo da te, anche perché io ho notato una cosa sin da subito, una caratteristica: anch’io sono una persona molto curiosa, amo relazionarmi con l’altro, conoscere, sono curioso e tu sembri una persona, nonostante questa straordinaria carriera, se vogliamo anche veloce ma ricchissima di esperienze, di premi e di soddisfazioni, penso qualche fallimento ci sarà stato sicuramente sulla tua strada, però tu sei una persona molto empatica. L’impressione mia è anche che tu sia una persona nelle relazioni molto pura e questo è dato dalla curiosità che hai chi ricopre il tuo ruolo, invece è qualcuno che vuole solo parlare di se.

A.V.  Hai centrato un tema! Sì, sono un regista abbastanza singolare da questo punto di vista. Per esempio, non ho paura di ascoltare, anche quando sto girando cose importanti, di ascoltare l’osservatore o la persona coinvolta e che ufficialmente non avrebbe titolo di proferire verbo. Perché “la regia è sacra”. No, io credo che mettersi in gioco sia sia parte fondamentale di questo gioco.
In inglese sai si dice “to play” che vuol dire recitare, un attore che va in scena, quindi non me lo dimenticherò mai. Mi dimentico raramente di essere un privilegiato. Le maestranze del cinema a Roma certe volte, quando tu ti chiede di spostare una cosa apparentemente irrazionale che molto spesso vista da certi punti di vista, ma che mi fa fare sta cosa che tanto non serve a niente, dicono spesso “vabbè va’, sempre meglio che lavorare”. Perché insomma quelli del cinema lo sanno che certe volte sono in condizioni privilegiate rispetto a chi, ogni santo giorno, deve timbrare il cartellino. Quindi io non me lo dimentico, e se posso assecondare le mie curiosità e scoprire sempre cose nuove, persone nuove, lo faccio. Le persone sono una ricchezza straordinaria, ed è straordinario oggi poter dedicare del tempo all’ascolto. Quella del tempo e la risorsa, forse sono le nostre materie rare non solo quelle strane sostanze che oggi sono ricercatissime per le batterie o per i chips, la vera materia rara e preziosa della nostra epoca è il tempo. E siccome non c’è l’ha nessuno, io cerco di amministrarlo, perdendole tantissimo, sicuramente, ma anche regalandone tanto a chi in cambio mi dà emozioni mi dà informazioni. E questo nel mio cinema qualsiasi mia attività artistica si amplifica, diventa una ricchezza importante.

R.V.  Tra l’altro si è parlato di tempo che è un elemento fondamentale nel tuo mestiere. Io ragiono molto sulle comunità e per me la comunità non è costituita solamente da persone ma è costituita dal luogo. Abbiamo parlato prima e poi dei tuoi luoghi di origine e dei luoghi di adozione e di quelli ai quali tu sei radicato. Hai lavorato molto anche sullo scoprire attraverso la parola i gesti delle persone, tentare di scoprire ciò che sta dietro ad alcuni mondi, alcune aree, eccetera.
Hai lavorato per il ministero e per la Regione. Quindi hai promosso, mi viene in mente Matera 2019, capitale della cultura, ma hai lavorato per il Ministero, anche altre volte. Ecco, lavorare per le istituzioni, diversamente che magari produrre un film e lavorare in maniera autoriale per la finzione, lavorare per le istituzioni forse mette in primo piano anche alcuni valori. Il tempo è importante, le persone sono importanti, sono i soggetti sui quali tu lavori tantissimo. I protagonisti però ci sono anche alcuni valori che ti senti di dire sì, ho lavorato anche per il sociale e ci sono dei temi, dei valori forti, dei principi.

A.P.  Sì, ci sono delle piccole grandi battaglie alle quali ho partecipato anch’io, ma credo che sia giusto. Ognuno deve fare quello che può nel territorio, per far crescere il suo Paese e il nostro mondo. Io, in assoluta umiltà, ho spesso messo la mia telecamera, la mia macchina da presa al servizio di cause ecologiste e sociali, o anche per illuminare pezzi di storia del nostro Paese che nessuno conosce. Penso ad alcuni miei documentari che hanno avuto anche molta fortuna e che hanno veramente gettato una luce su episodi misteriosamente misconosciuti della storia d’Italia. E penso, per esempio, all’aiuto all’infanzia in difficoltà. Nell’immediato dopoguerra, con un mio documentario, “Pasta nera” (2011), ho raccontato una fase della nostra storia della ricostruzione post-bellica che ha portato 100.000 bambini del Sud Italia a essere ospitati da famiglie del centro nord, soprattutto emiliane, come ho scoperto in questa storia, attraverso l’ascolto di un signore che io stavo intervistando, peraltro, e che mi detto “parliamo un altro po’ di tempo come adesso ma spegniamo tutto, non ti devo rispondere alle tue domande già precostituite”, e mi ha raccontato di quel giorno che è stato messo in un treno insieme a tanti altri bambini nel ’48 ed è stato portato ad Ancona in questo viaggio in treno. Mi ha raccontato di come per la prima volta abbia visto questa distesa blu scintillante e ha chiesto alla sua accompagnatrice “che cos’è?”, e lei gli ha detto “questo è il mare”, e lui così ha scoperto cosa fosse il mare. Continuando a raccontarmi, ha detto: “Poi siamo stati accolti alla stazione di Ancona”. Loro erano bambini poverissimi e le loro famiglie erano in difficoltà e furono accolti da cornetto e cappuccino. Dopo quasi 36 ore di viaggio e lui non sapeva cosa fosse il cappuccino perché mangiava solo pane e olio. Quindi, insomma, per intenderci, una storia così bella che fai? Non vai ad approfondire? Insomma, ho scoperto che da questo bambino in realtà, io pensavo fossero poche migliaia i bambini che avevano avuto quella quell’avventura, e invece stiamo parlando di 100.000 bambini. Studiosi, intellettuali di vario genere mi hanno sempre detto “io questa cosa non la conoscevo”. Ecco, e allora quando racconti storie del genere ti senti parte, dai il tuo contributo per ricordare tutti noi che siamo capaci di fare gesti di solidarietà bellissimi e certe volte certe che ce ne dimentichiamo.

R.V.  E poi aiuta tantissimo alla consapevolezza civica, la coscienza civica di tutti noi, perché anch’io ho visto delle foto dell’area Rovigo in Veneto nel ’57-’58 ancora tanti bambini della campagna non avevano le scarpe. Giravano, chiaramente a fine estate in mezzo alle strade che non erano ancora asfaltate (foto del ’57), senza scarpe.

A.P.  Sì, questo mi fece pensare una cosa Riccardo, questa delle scarpe sarebbe un tema veramente da approfondire. Per esempio gli inglesi non dicono “se fossi nei tuoi panni”, ma “se fossi nelle tue scarpe” (“in your shoes”) e Primo Levi, ad esempio, in “Se questo è un uomo” parla di sorte di sopravvivenza legata alle scarpe, cioè lui si è salvato nel lager nazista grazie al fatto che si era portato dietro delle scarpe resistenti e che gli hanno fatto lo hanno fatto sopravvivere alla all’internamento.
Stessa cosa alla campagna di Russia. Quelle poche migliaia che si sono salvati, che sono riusciti a tornare o sono stati imprigionati e poi restituite al nostro Paese, erano quelli che avevano delle scarpe buone. Quindi vedete che le scarpe tornano.

R.V.  Ecco, un’ultima domanda mi piacerebbe farti. Sappiamo anche che in questo mondo in cui la tecnologia e la tecnica chiaramente aiutano, servono sono un’estensione del nostro corpo. Ecco, tu come ti senti uno di quelli che è innamorato della tecnologia, di tutto ciò che sta succedendo giorno per giorno, mese per mese. Quindi, l’innovazione per te è fondamentale? Oppure sei uno di coloro che si appassionano di una tecnologia, di una macchina da cinepresa e su quella invece costruiscono tutto il proprio percorso senza cambiare quasi mai,

A.P.  Non è facile rispondere a questa tua domanda, perché in realtà non credo di avere una chiave unica. Per esempio, io non sono assolutamente affascinato dai social, non perché voglio fare lo snob, ma perché non non mi ci trovo il tempo per farlo, la curiosità per starci dietro. Adesso ho una assistente che mi ha pressato e mi ha quasi costretto a pubblicare un po’ di storie e adesso sono sempre super prolifico. Produco un sacco di storie! Devo dire che è anche stimolante perché osservi delle cose. “Registriamo un attimo, potrebbe essere una storia!” e quindi comunque ti aiuta a fermare delle cose che altrimenti magari poi ti passano nella testa fra diciamo l’evanescente memoria. Adoro le macchine da presa, la tecnologia che migliora e ci ha consentito di girare in molto meno tempo i nostri prodotti e soprattutto abbiamo capito che il mio è un approccio un po artigianale. Per certi versi l’idea di avere delle macchine da presa che mi consentano di girare come mi succede delle cose da solo mi piace moltissimo. Però non sono un “techno-freak”, diciamo così. Mi sento un po’ un dinosauro. So che sarò sopra avanzato fatalmente da chi invece gestirà molto meglio questa tecnologia, ovviamente nei nostri pensieri c’è l’intelligenza artificiale, farò proprio quel minimo sindacale per non stare troppo indietro. Ma sono assolutamente orgoglioso del fatto di aver iniziato questo mestiere in un’epoca in cui ho potuto prendere la pellicola in mano, tagliarla con il taglierino, attaccarla con con la colla e vederla in moviola, in un’aula, in una sala buia, in un seminterrato. Come si faceva 40 anni fa, per poi passare alle nuove tecnologie. Ecco, l’idea di essere stato pienamente analogico, non per vezzo della serie “adesso prendo un vinile”, ma di aver maneggiato quei materiali nell’epoca giusta, diciamo così, mi fa sentire un uomo che ha visto tante stagioni mi dà consolazione e ricchezza per certi versi e mi fa anche accettare il fatto che non sarò in grado di gestire tutte le evoluzioni tecnologiche. Non sta a me, ho fatto dei figli apposte e per questo se la vedranno loro!

R.V.  Grazie mille, grazie. Questo è Visiting per UNIRSM DESIGN TALKS io sono Riccardo Varini e ringrazio tutte le ascoltatrici e gli ascoltatori di Usmaradio. Ringrazio anche coloro che ci seguono, ci aiutano e ci affiancano in questa radio, grazie a Alessandro Piva.

A.P.  Grazie a tutti.