Il manifesto vincitore, assieme alle altre 19 opere protagoniste del concorso, esposto in una mostra che potrà essere visitata fino al 15 gennaio 2017 presso il Cinema/Teatro Concordia di Borgo Maggiore.
Molti pensano che il lavoro del designer sia quello di creare cose belle. Certamente è vero ma è una parte minore. Per me, gli aspetti più importanti del design sono il modo in cui pensiamo, il modo in cui ci assicuriamo di risolvere i problemi e i bisogni più importanti e più critici delle persone.
Donald. A. Norman
Presentarsi ad un appuntamento, come cittadini attivi e consapevoli. Cercare un metodo che permetta di individuare il problema, di definirlo, e poi di inquadrarlo
sotto punti di vista diversi. Interpretare il mondo e costruire narrazioni. Anche questo, oggi, è il compito del designer e questo è ciò che 20 studenti di vari Corsi in Design hanno cercato di fare.
Si sono presentati all’appuntamento, senza cravatta e neppure in tailleur, ma con in mano e negli occhi disegni, linee, colori, forme per affrontare con sguardi nuovi un tema complesso, che necessita di essere profondamente compreso. Hanno accolto l’invito del Dipartimento di Scienze Umane, del Dipartimento di Economia, Scienze e Diritto e dei Corsi di Laurea in Design di ideare la grafica dei manifesti per le future campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne. Come fare? Ce lo spiegano, nelle loro relazioni progettuali, gli studenti partecipanti.
Dipanare la matassa non è cosa semplice. Il pensiero si definisce, si chiarisce, attraverso il disegno. Il problema si individua stando molto attenti a non confondere la causa con l’effetto, poi si analizza, si scompone e si ricompone. Scrive Veronica Gardinali “Si riscontra nei manifesti l’utilizzo ricorrente di immagini di donne che hanno subito le conseguenze di violenze, credo invece che sarebbe più importante spostare il discorso comunicativo verso una riflessione sulle cause che portano a questi tipi di atti”. Designer costruttori di narrazioni e di realtà, consapevoli che, come dice Cecilia Marzocchi, “il nostro coinvolgimento
è maggiore e la nostra memoria più attenta se al contare si preferisce il raccontare”. Il progetto, suggerisce Stefania Borasca, è un (f)atto di (r)esistenza sul tema.
E se anche i designer, nel XXI secolo, fossero “scultori sociali”?