Claudia Cantarin - Visiting - conversazioni attorno al Design - UNI.RSM DESIGN TALKS - USMARADIO - PODCAST

Claudia Cantarin – Doppio filo: il design tra creatività ed educazione

ITA - #educazione #comportamento #alimentazione

Visiting

durata 12:05

VISITING – Conversazioni attorno al design
un podcast di UNI.RSM DESIGN TALKS
a cura di Alessandro Renzi ed Emanuele Lumini
speaker & host Elena Brigi, Alessandro Renzi

Claudia Cantarin

Nata al confine tra Italia e Slovenia, si laurea in Architettura a Trieste con una tesi di ricerca storica. Lavora come arredatrice e sviluppa progetti personali in decorazione, scenografia e illustrazione. Trasferitasi a Treviso, completa la specialistica in Disegno Industriale allo IUAV, dove incontra designer e architetti di rilievo come Michele De Lucchi e Tobia Scarpa. Si laurea con un progetto modulare di arte in viaggio, presentando una tesi convinta del potere educativo e sociale dell’arte.

Lavora presso lo studio Archiroom di Venezia, curando progetti per marchi come Marina Yachting e Fondazione Roma Musei. Partecipa a corsi di illustrazione e teoria del colore e organizza laboratori educativi, tra cui ‘Gir in-tor’ e ‘Columore’. È stata membro della commissione museale dell’A/I/S design, contribuendo alla didattica nei musei di design. Attualmente frequenta il corso sui linguaggi del bambino a Reggio Children, collabora con Gruppo Immagine e porta avanti il progetto ‘Sartoria Culturale’, volto all’educazione attraverso l’arte.

Claudia Cantarin

Elena Brigi  Sono Elena Brigi, siamo qua a Usmaradio e con noi c’è Claudia Cantarin.

Claudia Cantarin  Buongiorno.

E.B.  Buongiorno a te, benvenuta, bentornata, visto che sei stata tanto tempo qua come mia assistente. Questo mi riempie di orgoglio ma in realtà questa volta ti abbiamo chiamato per le tue competenze, nel senso che sei un po’ sempre, sempre un po’ border, un po’ ai confini. Architetto, designer, educatrice e sei riuscita nel tuo percorso di studi e di lavoro, a far sì che il design sia diventato un elemento conduttore di questa grande esperienza che stai conducendo nei laboratori non solo con i bambini, ma laboratori dove il design aiuta persone con capacità ridotte, come possono essere anziani oppure persone che hanno avuto dei percorsi o stanno attraversando dei percorsi difficili…

C.C.  …disturbi del comportamento alimentare.

E.B.  Esatto. Bene, raccontaci un po’ quello che è stato questo tuo percorso. Tu oggi qua sei responsabile di questo workshop sui confini e quindi partiamo da questa idea di cos’è un confine, che sono i confini reali, reali, psicologici, ecc. E come questo (tipo di) design in realtà ti ha portato a pensare in maniera diversa come agire su questi confini, queste distanze / non distanze.

C.C.  Allora, come abbiamo detto alla presentazione l’altro giorno, presentare sé stessi è sempre molto complicato, soprattutto perché, come hai anticipato, tutta la mia formazione è stata abbastanza trasversale. Ma nel raccontare proprio il percorso che ho fatto si dice tanto di quello che faccio adesso. Quindi, come detto, appunto, sono architetto designer ma educatrice. In realtà nasco come maestra, quindi inevitabilmente nel mio lavoro e nella mia crescita personale questi due aspetti hanno sempre convissuto in maniera quasi intrecciata.
Tant’è che appunto lo studio l’ho chiamato “Doppio Filo”, perché un filo era parte di creatività, di progettazione, l’altra è quella educativa. E non possono vivere uno senza l’altro, perché credo molto che una delle componenti fondamentali del del design, ma non solo, un po’ di tutto quello che è l’aspetto del lavoro dei progettisti, abbia a che fare molto con un’idea di educazione molto ampia, quindi, che non è legata solo ed esclusivamente al mondo dell’infanzia.

Come spesso si pensa, ma come ormai diciamo noi del settore, tutti dovrebbero esserne consapevoli. Sappiamo che l’educazione dura tutta la vita, per cui quando mi chiedono con chi lavori dico sempre dagli 0 ai 99 (anni), ma in realtà adesso posso dire 104! Avendo fatto appunto con San Marino questa esperienza all’interno della casa di riposo di Venezia, in un progetto inserito nella Biennale di San Marino dell’anno scorso (2023) in cui appunto ho avuto la fortuna di fare un laboratorio con, posso dire, la persona più anziana che ho avuto per adesso che è stata questa signora di 104 anni, meravigliosa, e questo ci insegna il fatto che l’arte, ma non solo, tutto l’aspetto, anche di creatività nel senso più ampio del termine, può servire a tutti indipendentemente dal percorso di vita che hanno fatto. Da diversi anni sto portando l’esperienza all’interno dell’ospedale, in questi centri diurni chiamati DCA, che sono appunto degli spazi che accolgono ragazzi e ragazze con disturbi del comportamento alimentare. La cosa importante è, come dicevamo prima anche al laboratorio, non è soltanto un momento di svago o di divertimento. Certo, lo è! Ed è fondamentale che lo sia. Anche perché, appunto, l’apprendimento passa attraverso il divertimento e qui davanti a me ho la faccia di Achille Castiglioni, che insomma ce lo dice in maniera molto espressiva. Ma è soprattutto un momento in cui si possono fissare dei delle relazioni con se stessi, con gli altri ci possono essere delle scelte che vengono fatte inaspettate, che ci aprono la possibilità a vedere.

Per esempio, nel caso appunto delle ragazze con cui lavoro, anche semplicemente rendersi conto che ci sono punti di vista diversi, può essere fondamentale per la loro guarigione. Non mi sento di dire che con i miei laboratori sia tutto più facile e si guarisca immediatamente, anzi, non si parla di guarigione, ma di di un percorso. Però in qualche modo se utilizzati anche da chi le conosce quotidianamente o da chi comunque ha una relazione di tipo diverso. Possono essere degli strumenti per poter lavorare a fondo, ecco quindi sicuramente quello che a me preme sottolineare, appunto, è che l’aspetto didattico e l’aspetto laboratoriale non siano solamente un gioco, ma un gioco serio.

E.B.  Tu l’avresti mai detto, quando hai iniziato questo percorso prima da architetto, poi nella tua magistrale che il design ci avrebbe portato a questo?

C.C.  Allora, ho iniziato a fare laboratori quando avevo 18 anni, oggi sono 22 anni che faccio laboratori e li facevo in maniera molto diversa. Erano dei laboratori che partivano dall’idea del gioco, del divertimento, ma da sempre ho inserito quel qualcosina in più che possiamo dire legato ad una visione di azione come cambiamento. Quindi faccio l’attività, mi diverto, porta a casa qualcosa e quel qualcosa può scatenare un pensiero. Sicuramente il percorso che ho fatto, soprattutto, appunto, la magistrale in disegno industriale che in realtà mi ha portato a fare una tesi sull’arte, come mezzo per poter intervenire in alcune situazioni di disagio e tutte le formazioni che ho fatto successivamente perché ahimè, sono molto curiosa, quindi mi mi diverte proprio imparare cose nuove e trasformare e mescolare rendendole in qualche modo mie. Mi hanno aiutato a capire che, banalmente, quelli che noi studiamo come semplici designer, in realtà sono arrivati a produrre e a progettare quel prodotto. Oppure, se parliamo del mondo della grafica con la texture, quell’aspetto grafico attraverso un percorso e quel percorso in realtà può essere utilizzato in chiave educativa per raccontare qualcosa di diverso. Sicuramente la conoscenza degli anni è stata fondamentale.

E.B.  C’è da dire che rispetto ad altri tuoi colleghi che operano in questo settore, conoscendo il tuo percorso biografico, conoscendo bene di sicuro il fatto che tu vieni da una situazione di confine, negli anni hai anche operato con chi li oltrepassa i confini in maniera faticosa, non con dei passaporti, non con degli aerei, ma camminando nascosti e avendo paura. Hai di sicuro formato a far sì che i laboratori siano diventati una lingua che sostanzialmente permette “l’insieme”.

C.C.  Questo è uno degli aspetti che trovo più magici, in qualche modo negli anni ho lavorato come dici tu, appunto con ragazzi richiedenti asilo, quindi con lingue e culture assolutamente lontane da quelle che possono essere le mie opere. Sono una persona cresciuta sulla linea di confine a Gorizia, ma che attualmente vive in un paesino della campagna per cui i nostri mondi sono assolutamente distanti.
Ma la lingua del laboratorio, una lingua internazionale per cui mi è capitato molto spesso di fare attività senza parlare, quindi senza spiegare che cosa dovessimo fare, senza tradurre in inglese, una sorta di inter comprensione manuale, mediata dal fatto che non ci possiamo comprendere con la lingua, ma che con tutto quello che abbiamo a disposizione, quindi con la preparazione del set dei materiali piuttosto che alcune indicazioni spiegate appunto senza parole, riuscissimo ad ottenere dei grandi risultati e a conoscerci in maniera diversa. Il fatto di essere nata in una città che era simbolo l’ultimo muro, come la chiamavano l’ultimo muro di Berlino, anzi l’ultimo muro dell’Europa, perché è stato definitivamente tolto diversi anni dopo la caduta del muro di Berlino. Mi ha sempre in qualche modo messo nella posizione di sapere che c’è un altro, quindi che c’è qualcosa dall’altra parte, ma in una condizione di quasi normalità. Di questo altro non abbiamo, almeno non l’ho mai vissuta come una differenza. C’era qualcosa che ci divideva, però era molto semplice andare di là e di qua e quindi era la normalità giocare sulla linea del confine.

E.B.  L’ultima cosa che ti chiedo, perché tu mi hai raccontato che hai fatto questa bellissima esperienza di questo progetto europeo che ti ha portato, fra le altre cose, di là dei confini, su delle problematiche e altrettanto in cui, diciamo oggi, in maniera orgogliosa. Riguarda la violenza e la violenza di genere, ecc. Quindi solo un’ultima cosa su questa tua esperienza.

C.C.  Questa è stata un’esperienza interessantissima e dal punto di vista formativo, oltre che professionale, ma soprattutto personale, è stata fondamentale perché mi ha messo a confronto con delle realtà europee molto diverse. Per qui abbiamo avuto la possibilità di confrontarsi tra italiani, sloveni, austriaci, serbi. Direi che li ho detti tutti, sì! E su questo tema molto importante che è lo stereotipo di genere, affrontato però sempre con un punto di vista “altro”, attraverso la fotografia, attraverso il collage che è stata appunto la tecnica che io ho proposto come metodo per fermarsi e guardare dentro se stessi piuttosto che l’arte contemporanea.
Quindi degli sguardi molto diversi per ragionare appunto su un tema complesso come quello dello stereotipo di genere. E soprattutto, l’obiettivo era quello di far sì che le persone si facessero delle domande. Secondo me è una delle cose principali in questo periodo storico. Quindi non lasciare che le cose corrano senza fermarsi a pensare, ma anche già il fatto di osservarle da un punto di vista e porsi una domanda, magari non darsi subito una risposta per attivare quel pensiero di riflessione. In questo momento storico è fondamentale il progetto…

E.B.  Come si chiama il progetto?

C.C.  Si chiama, perché ancora è scaricabile, c’è un sito, si chiama “Tigers” ed è un progetto su l’empowerment femminile. Lo stereotipo di genere benissimo insomma.

E.B.  Grazie a Claudia Cantarin e la sua esperienza, abbiamo aperto veramente fino in fondo in questo vaso di Pandora che è il design cioè la possibilità, le infinite possibilità che il progetto, quindi gettare una cosa in avanti, ti offre. Ti dà per risolve o comunque, diciamo, mettere sulla strada di una risoluzione dei problemi. Grazie, e tornaci a trovare!

Questo è Visiting per Unirsm Design Talks e io sono Elena Brigi e ringrazio tutte le ascoltatrici e gli ascoltatori di questa Usmaradio. Grazie mille, arrivederci.