Anna Steiner – Grafica e libertà
Visiting
Usmaradio X Giornata della Memoria 2023
Roberto Paci Dalò incontra Anna Steiner e Lucia Roscini per un approfondimento sul workshop “Vapore” di Unirsm Design. Nella conversazione si riflette sul ruolo del progettista in considerazione dell’eredità storica dell’Olocausto e del progressivo svuotamento del potere delle immagini nei nostri tempi.
VISITING – Conversazioni attorno al design
un podcast di UNI.RSM DESIGN TALKS
a cura di Alessandro Renzi ed Emanuele Lumini
advisor Alessio Abdolahian
speaker & host Roberto Paci Dalò – Alessandro Renzi
Roberto Paci Dalò Buongiorno a tutti e a tutti. Al microfono Roberto Paci Dalò, in regia Alessandro Renzi, assistenza Beatrice Benicchi e Ilaria Ruggeri. Oggi siamo in una conversazione per il programma Design Talks di UNIRSM e diamo il benvenuto alle nostre ospiti Anna Steiner e Lucia Roscini, benvenute. Dico qualcosa in apertura su Anna. Anna è architetto, lavora nell’ambito degli allestimenti e della grafica nello studio Rigoni Steiner è docente della Facoltà di Design al Politecnico di Milano. Ha collaborato con editori, imprese ed enti pubblici per libri, pubblicazioni, identità visive e immagini coordinate Ha inoltre curato mostre dedicate alla grafica italiana. Anna è figlia di Albe e Lica Steiner, tra i protagonisti del rinnovamento della grafica e della comunicazione italiana, da quella aziendale a quella politica nel secondo dopoguerra. Attivi entrambi nella Resistenza italiana, Albe fu commissario politico di una brigata partigiana nella Val d’Ossola e Lica staffetta; sono sempre stati profondamente legati dalla comune militanza antifascista e dalla volontà di rinnovare il panorama culturale italiano. Per raccontare il loro lavoro Anna Steiner ha curato insieme allo studio Rigoni Steiner la mostra itinerante “Lica e Albe Steiner, grafici partigiani” che è stata presentata in varie città da Milano, Firenze, eccetera, con un catalogo pubblicato da Corraini. Insieme a Lica Steiner ha curato mostre e lezioni sull’opera di Albe Steiner, ha ordinato i materiali dell’archivio Albe e Lica Steiner, che è stato poi donato al Politecnico di Milano e ha lavorato a iniziative di divulgazione delle opere dell’archivio.
Benvenute! Dopo questa introduzione biografica abbastanza importante che ci porta a dei tempi che sembrano lontani, ma non sono lontani da tutti i punti di vista, sia da un punto di vista della grafica in senso stretto, sia da un punto di vista del pensiero politico e della coscienza civica. Oggi siamo a San Marino, all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, ma grazie a un progetto di una mostra tascabile un po’ particolare, perché è un progetto che ha come tema un tema molto importante, che è la deportazione nei campi di sterminio nazisti. Come siamo arrivati a questo progetto? E perché è importante lavorare su queste tematiche?
Anna Steiner Rispondo per prima?
Lucia Roscini Per me va bene.
A. S. Allora, per quanto riguarda l’arrivo al progetto, penso che Lucia abbia da dire più di me essendo la docente responsabile in San Marino. Però posso dire che l’incrocio personale con Lucia da parte mia è avvenuto quando Lucia, come professionista, ha partecipato ad un concorso per il quale io ero nella giuria. Un concorso promosso dalla Fondazione Memorie della deportazione del CDA, della quale io faccio parte, e dalla Associazione AIAP cioè dall’Associazione dei Professionisti Autori grafici e designer, oggi si direbbe visual designer. E questo concorso fu vinto da Lucia. Era per un manifesto che ricordasse la figura del presidente della Fondazione Memorie della deportazione, Gianfranco Maris, avvocato antifascista, deportato nel campo di Mauthausen e sopravvissuto. E il manifesto di Lucia era molto interessante. Da lì è nato il nostro incontro e penso da lì anche l’idea di non limitarsi, diciamo al commento di questa sua vittoria, diciamo, ma di andare un po’ oltre, dato che sia lei che io insegniamo e abbiamo ben presente il fatto che mediamente i giovani, gli studenti che noi conosciamo nel corso degli anni diciamo sono sempre meno, non dico preparati ma informati banalmente di che cosa siano stati i campi di sterminio in Europa e del significato, diciamo così, concreto di quella tragedia. Quindi da lì è nato forse il progetto. Però poi Lucia senz’altro aggiungerà qualcosa in più.
L. R. Sì, certo. Salve a tutti. A me interessava trattare il tema proprio per i motivi che ho detto Anna, anche perché è molto attuale e mi piaceva però dargli un taglio molto orientato al design. Invece di far lavorare gli studenti in maniera astratta sulla tematica della deportazione siamo partiti proprio dal lavoro di Albe Steiner, e quindi da una riselezione dell’immagine fotografica che lui aveva fatto per la sua mostra del 1970. E il tema era dare in mano agli studenti quelle stesse immagini e capire come loro le vedessero in maniera diversa e potessero comunicarle in maniera diversa e quindi, naturalmente, anche restituirle a un pubblico più giovane e far prendere un nuovo senso a queste immagini, visto che sembrano averlo perso.
R. P. D. Infatti c’è un problema di memoria in generale, c’è proprio un problema che contraddice paradossalmente la quantità di informazioni alle quali accediamo quotidianamente. Però un conto sono le informazioni e un conto è l’analisi delle informazioni. Per cui quando si parla è veramente sconcertante constatare una caduta di memoria che ha a che fare con qualunque cosa e che nel nostro caso, parlando proprio di campi di concentramento, ha a che fare anche con dei fenomeni che sono insorti, che hanno a che fare con il negazionismo, con il relativismo con tutta una serie di cose paradossali che non avremmo mai immaginato fino a pochi anni fa. Quindi il fatto di lavorare anche con dei ragazzi di questa età ora forse è importante ed è importante sia per una memoria grafica, come nel caso della relazione con Albe Steiner proprio, con la sua mostra del ’70, sia proprio per cercare di ritrovare il filo di qualcosa che si sta smarrendo. In certi casi si è proprio smarrito. Giusto?
L. R. È corretto. E infatti stiamo vedendo che gli studenti hanno una visione di queste immagini molto diversa da quella che potremmo avere noi. Non so se se Anna vuole commentare oggi abbiamo visionato la prima parte dei lavori ed è per noi interessante e stupefacente come i ragazzi vedano queste cose in maniera diversa.
A. S. Sì, devo dire che, il primo commento che ho fatto è stato complessivamente rispetto ai loro lavori molto positivo. In realtà tutti i ragazzi che hanno lavorato in gruppi si tratta di 13 gruppi e quindi di un numero superiore a 30 di studenti hanno avuto un approccio, ciascun gruppo diverso e molto interessante. L’insieme dà una visione di notevole interesse del loro punto di vista sulla vicenda. La prima domanda che ho posto loro nel confronto nel merito dei lavori è stato: “avete sentito una mancanza di conoscenza di questo fenomeno storico?” C’è stato un sì corale, quindi questo è il punto principale. La storia, la storia che non è studiata, la storia che ormai è di un secolo fa, quasi non è proprio, non solo studiata, ma a volte neppure sommariamente conosciuta. E questo è molto grave perché si tratta di una tragedia che come dice Primo Levi, può ripetersi e non nelle stesse identiche forme. Ma, come scrive Primo Levi, e questa è una frase che mi è rimasta impressa da sempre, se le condizioni lo consentono, può ripetersi. E cosa significa se le condizioni lo consentono? Significa che dobbiamo fare attenzione alle condizioni del contesto storico, politico, sociale.
E questo nostro contesto del presente è tale da essere molto preoccupati perché viviamo una crisi economica riconosciuta universalmente molto forte viviamo una crisi sociale perché sono in aumento direi esponenziale le disuguaglianze. Il che sta alla base di possibili gravi conflitti. E viviamo in una condizione, diciamo, del mondo complessiva inquietante. Perciò le condizioni sono tali da poter far presumere di dover essere molto vigili rispetto alla possibile ripetizione.
Ripeto, pur in forme diverse, di tragedie analoghe a quelle e a quella complessiva già vissuta.
R. P. D. Tu hai evocato proprio delle parole chiave che sono storia e geografia, che sono i capitoli caduti dei sussidiari cioè storia e geografia non interessano più a nessuno, come se la geopolitica non fosse l’asse portante del nostro quotidiano. Ma c’è un altro diciamo un altro capitolo caduto perché Alessandro Galante Garrone nel ’66 con l’editore Loescher, pubblica il libro “Noi cittadini, corso di educazione civica per le prime due classi della scuola secondaria superiore”.
Che cos’è questo libro? E cosa significa pensare, parlare di educazione civica nel 2023? Non ci interessa una roba degli anni ’60, ma…
A. S. Dunque questo libro è stato il mio libro del ginnasio e quindi dovevo studiarlo. Era il ginnasio di un liceo classico milanese, il liceo Manzoni, severissimo all’epoca. Era un testo importante al quale veniva dedicato un tempo preciso, programmato come per qualunque altro testo, per qualunque altra materia disciplinare. Oggi non c’è, perché oggi educazione civica, 1 ora alla settimana fluttuante uso questo termine perché così dà l’idea che può essere insegnato da qualunque tipo di docente. Può insegnarlo un docente laureato in matematica e che non ha approfondito nel corso della sua stessa formazione, nulla relativamente l’educazione civica. E questo fa capire la grande differenza. Io ricordo che quel testo per me, pur venendo da una famiglia dove l’educazione alla cittadinanza, io da piccolina venivo chiamata cittadina del mondo già quando avevo 6 o 7 anni, perché sono nata a Città del Messico. Però avevo ovviamente cittadinanza e nazionalità italiana e quindi sono stata cresciuta con l’idea di essere prima di essere Anna cittadina del mondo. Però quel libro per me è stato fondamentale. Mi ha spiegato i meccanismi semplici di come vive una repubblica fondata sui cittadini. Se i cittadini possono e fanno partecipare. Oggi io vedo con i miei studenti del primo anno del Politecnico, non c’è nessuna cognizione in merito e questo è abbastanza preoccupante.
Soprattutto per degli studenti che diventeranno professionisti della comunicazione. Possono essere vittime e strumenti della peggiore manipolazione. Anche qui devo ricordare che io vengo da una famiglia dove mio padre, nella premessa al suo lavoro di insegnamento che è durato tutta la vita, come del resto quello di mia madre, dai primi anni dopo la guerra fino alla morte. Entrambi avevano come premessa al loro insegnamento quella frase che è stata poi messa, diciamo così, ad occhiello della prima pubblicazione dopo la morte di mio padre fatta da Einaudi, “Il mestiere di grafico” che diceva: “il grafico” e oggi diremmo il visual designer, diremmo il comunicatore, “non è un venditore di fumo se viene chiamato a promuovere un oggetto nocivo deve rifiutarsi di farlo”. E chiaro che se non si ha nessun tipo di formazione civica questa frase non ha alcun senso, perché chi si forma nelle scuole come questa dove siamo, presume di essere fondamentalmente un capace, competente e competitivo esecutivista, qualunque cosa può fare. E questo è molto inquietante soprattutto se si legge come alcuni dei ragazzi che in questa occasione di lavoro che stiamo facendo anche tra poco continuiamo, hanno detto quello che scopriamo è la manipolazione dei bambini, poi degli adolescenti, poi dei giovani nazisti e fascisti. E quindi la comunicazione è stata fondamentale per lo sviluppo di questa tragedia. Fondamentale.
Perciò, dovrebbe essere fondamentale una forma azione che punti alla responsabilità civica.
R. P. D. Hannah Arendt a Gerusalemme segue il processo Eichmann e, emerge da questo suo da questo suo reportage un testo che è “La banalità del male”, che parla proprio della non consapevolezza, Eichmann dice “io non sapevo niente, ho seguito degli ordini”, ma così è stato a tutti i livelli della catena della gerarchia nella Germania nazista. Allora riflettere su questo potrebbe anche aiutarci a guardare al presente, no? Allora, durante e subito dopo la guerra c’era una relazione diretta tra il mestiere di grafico e i valori come libertà e cultura. Oggi c’è l’illusione di poter condividere istantaneamente con tutto il mondo qualsiasi informazione e questo ha reso incredibilmente difficile essere efficaci nella comunicazione allora questo collegamento grafica, libertà, cultura si è perso completamente o c’è la possibilità di essere attivisti, diciamo attivisti e attivisti ed intervenire in altro modo con delle possibilità delle tecniche, dei mezzi che potrebbero servirci per molto altro? Al di là proprio dell’oggetto stesso del manufatto, come siamo messi oggi?
A. S. Ma io continuo a pensare che in realtà c’è un’attività di comunicazione anche importante molto importante, anche ora. Penso per esempio alle comunicazioni di Amnesty International, che si batte da sempre, da sempre no, ma insomma da moltissimi decenni per i diritti nel mondo e comunica su queste tematiche. Penso a tutte le forme di volontariato civile che intervengono su più settori e che hanno una comunicazione forte. Diciamo che la qualità specifica professionale non sempre è all’altezza dei contenuti, questo sì, ma questo probabilmente lo era anche prima. Però oggi che abbiamo strumenti molto superiori, stupisce. Io penso a mio padre che sarebbe stato non dico entusiasta, ma di più nel vedere come si può comunicare. Ogni scoperta era vissuta… tecnica, all’ora è morto nell’agosto del ’74, quindi eravamo agli inizi delle scoperte tecnologiche, ma le scoperte tecniche che man mano fino al ’74 venivano diffuse, erano per lui occasioni strepitose di lavoro, con un entusiasmo proprio travolgente. Penso gli strumenti, per esempio, anche solo della fotografia. Il suo passaggio dalla Rolleiflex alla Leica alla Polaroid, la Polaroid è stato il massimo… quando aprì la macchinetta, “ce l’ho già la foto! Posso cambiare, posso…”. Ecco, sarebbe stato, ma non entusiasta. Ripeto molto di più e me lo sono sempre immaginato man mano crescevano le opportunità di comunicazione. E però a queste opportunità non ha corrisposto un innalzamento, secondo il mio punto di vista, adeguato della qualità. Questa è la domanda che dal punto di vista prima storico, sociologico e poi anche professionale, dobbiamo porci.
R. P. D. Ad esempio stamattina, quando siamo entrati nell’aula E se non sbaglio e abbiamo avuto il colpo d’occhio di tutti questi tavoli con i progetti dei ragazzi. Una cosa che a me personalmente ha colpito molto è stata proprio la qualità della riduzione dalla palette cromatica. Il fatto di lavorare su Albe Steiner e forse fatto pensare di ridurre un po’ il materiale. Quindi c’è tanta bicromia. Io ho visto tanto nero tanto rosso che sono due colori che mi sembra abbastanza importanti nel lavoro di Steiner e quindi la riduzione in realtà produce di più dal punto di vista della percezione, talvolta.
L. R. Non sono particolarmente d’accordo, perché mi sembra che loro siano partiti dal bianco e nero, perché le immagini da cui sono partiti loro erano in bianco e nero e non si siano resi conto che una delle possibili rielaborazioni era proprio quello dello sfruttamento del colore. Quindi io quello lo vedo come un atto di scarsa riflessione e un po’ di pigrizia e un po’ mi riallaccio a quello che diceva Anna, e cioè abbiamo così tanto, ma non abbiamo la capacità di unirlo in un progetto, di farlo vivere nel progetto. Quindi in realtà il tanto come nel nell’eccesso dell’informazione abbiamo troppa informazione e quindi siamo disinformati, abbiamo troppa tecnica e quindi non la usiamo e se abbiamo il bianco e nero di partenza rimaniamo lì perché ci sembra coerente e la coerenza è una di quelle armi di marketing da cui dovremmo guardarci perché poi ci portano a una coerenza eccessiva nella politica, a una coerenza eccessiva che non riusciamo più a combattere.
R. P. D. Quindi sembra che quello che manca in realtà sia in parte proprio l’ars combinatoria, perché le nozioni si possono attingere da ovunque, anzi, siamo bombardati di informazioni, di data e ci dobbiamo solo difendere però la lungimiranza all’attenzione nel poter ricollegare i puntini forse potrebbe essere una delle cose interessanti da fare anche dal punto di vista della progettazione, cioè nel momento in cui si riceve un materiale dato come questo, anche di ispirazione, dove andare a partire da questo, ma senza restare pedissequamente dentro quella forma, perché altrimenti non c’è un’evoluzione del progetto.
L. R. Se io immagino Albe Steiner, con i mezzi che adesso lui poteva solo usare la fotografia la fotocopiatrice per deformare, per dare rilievo alle immagini e quello ha fatto, e quindi io in realtà mi aspettavo dagli studenti una deformazione molto maggiore di quella che hanno operato sulle immagini. Invece loro, un po’ per rispetto, un po’ per paura, un po’ perché, appunto, l’eccesso porta al niente. Sono stati molto morigerati…
R. P. D. Secondo voi gli studenti, prima di arrivare al laboratorio, hanno fatto ricerche per capire di cosa si stava per parlare?
L. R. Prima, prima.
R. P. D. Prima perché è la cosa più ovvia. Abbiamo a disposizione tutti i mezzi possibili, hanno persino inventato l’internet che qualcuno se ne è accorto, altri no. Quindi abbiamo persino l’internet. Mi domando se qualcuno di loro ha per esempio sfogliato questo libro meraviglioso. Scusate, faccio propaganda. Ma “quando ce vo’, ce vo'”, “Lica e Albe Steiner, grafici partigiani” che ha curato Anna ed è uscito per Corraini Editore che è un libro veramente bellissimo perché mostra tra l’altro come sia possibile come sia stato possibile come dovrebbe essere ancora possibile coniugare, diciamo l’impegno, la militanza, una riflessione anche politica, con una grafica e una comunicazione impeccabile e minimale da questo punto di vista, utilizzando appunto i mezzi e le risorse dell’epoca, la fotocopiatrice. Quindi manco le ombre, però, e mi vien da pensare se i ragazzi avessero dato una simpatica sfogliata a un libro del genere, avrebbero avuto forse un panorama ben più ampio per potersi muovere dentro.
L. R. Sì, non hanno fatto ricerca.
R. P. D. Non hanno fatto ricerca.
L. R. Naturalmente no, abbiamo dovuto spingerli e credo che questo qui sia un po’ un guaio, un po’ la condanna di questa epoca. Siccome tu hai sempre tutto a portata di mano, allora non lo guardi e lo guardi solo se te lo dico io. Quindi le cose che gli ho detto di andare a guardare le hanno guardate tutte le altre no, ma soprattutto non hanno fatto quel collegamento di cui parlavamo. Cioè, visto che prima Albe non aveva Internet e adesso noi ce l’abbiamo, cosa potremmo fare? L’intelligenza artificiale, che so…gli algoritmi, la programmazione dell’immagine, a meno che noi lo abbiamo suggerito, non hanno fatto il collegamento, è un peccato.
A. S. Beh, direi che ci sono tantissime cose. Ci sono tantissime cose che avremmo potuto suggerire, dico avremmo anche se io ero distante e quindi ho avuto solo dei piccoli momenti di contatto, no? Però faccio degli esempi da quando è morto mio padre ci sono stati degli esempi di lavoro professionale nel campo delle arti visive su questa così difficile tematica direi straordinari. Penso per esempio al Museo di Libeskind di Berlino, che è stato un progetto così particolare. Io sono sicura che i ragazzi forse neanche sanno che esiste ed è invece un esempio di elaborazione sulla tematica, elaborazione vissuta in modo particolarmente profondo da Libeskind, perché ebreo e perché è tedesco, quindi dentro la storia. Questo museo io mi ricordo quando ho letto le prime notizie sui quotidiani, eccetera, è comparsa la prima pianta e le prime immagini delle facciate con queste spaccature. E questo concetto che tu entravi nel museo e ti mancava il terreno, strepitoso, cioè un’idea straordinaria perché attraverso la vita concreta tua di immedesimavi in quel momento storico. Poi diciamo che finché il museo è stato un’architettura vuota, vedevi di più questa idea e capivi l’elaborazione, diciamo, progettuale sul tema. Quando poi il museo si è riempito è venuto un po’ meno perché guardavi la documentazione interna e vivevi meno un impatto emozionale iniziale. Ho fatto questo esempio per dire che alcuni suggerimenti ai ragazzi di apertura, al di là della mostra Steiner degli anni 70, che pure è significativa perché aggiungono un elemento di conoscenza rispetto a questa mostra, Albe e Lica hanno selezionato un numero relativo di immagini tagliandole dai documenti storici che venivano da una ricerca fatta da mia madre con un incarico specifico del Comune di Carpi. Che risulta come documentazione in archivio dal ’65 fino al ’73.
Per quindi tanti anni, per tutta Europa, per andare a trovare nei luoghi dove erano state raccolte le immagini, la documentazione. Per cui, nell’archivio Steiner che noi come eredi abbiamo donato al Politecnico, c’è una voce nella sezione “Fotografie raccolte” che si chiama Fondo Deportazione, che quello che abbiamo mostrato ai ragazzi che sono venuti in archivio. Quindi un po’ di ricerca è stata fatta. Io ho aperto i fascicoli e quello che è interessante che tu vedi delle foto di piccolissimo formato, diciamo sei per dieci piuttosto che senza un formato standard con dietro delle scritte a volte a matita che documentano chi ha dato quella foto non sempre ci sono, ma quella ricerca è di circa 900 e passa immagini fotografiche. Quindi consistente, di grande valore contro il negazionismo, perché quelle sono immagini o scattate dagli alleati quando sono entrati nei campi o scattati dalle truppe dell’Armata Rossa, quando è entrata nei campi o scattate da singoli in modo ovviamente clandestino o addirittura scattate dalle SS per documentare proprio interno ai capi, diciamo la situazione. Quindi sono immagini / documento fondamentale per capire il fenomeno e sono immagini nella stragrande maggioranza veramente agghiaccianti. Ed è vero, sono state viste molte ma scegliere tra quelle immagini è stato molto difficile per i miei genitori. Ci hanno lavorato su moltissimo sia per trovarle che poi per selezionare appunto e poi, una volta selezionate, individuare alcuni dettagli, quindi in realtà i ragazzi nostri hanno fatto una ricerca su questo.
Gli spunti di cui parlavo prima su altro forse avremmo dovuto darli noi, non sempre facile. Forse potevano crearsi lì da sole, visto che hanno in mano degli strumenti anche molto semplici per farlo. Ma evidentemente non è così facile perché altrimenti noI avremmo avuto la possibilità di modificare questa ricerca.
R. P. D. Una cosa che sta succedendo già da parecchi anni è proprio lo svuotamento del potere delle immagini. Cioè, le immagini bombardati come siamo di immaginI attraverso qualsiasi mezzo, tecnologia, sistema. Veramente queste immagini diventano sempre più immagini, nel senso proprio di qualcosa che scorre laggiù lontano e di conseguenza perdono forza. Tu dici ed è vero, queste sono immagini agghiaccianti., ma queste immagini agghiaccianti immesse nel flusso delle immagini percepite quotidianamente attraverso qualunque dispositivo, diventano delle immagini quasi di sfondo, che è una cosa tragica questa. E poi c’è anche la questione del vero, del falso, della credibilità perché che si aggancia al negazionismo. Allora quando tu ora come ora con la tua AI, con la tua intelligenza artificiale, produci immagini, produci video veri, falsi e addirittura l’ultima notizia di tre giorni fa, in questo momento bastano 3 secondi di registrazione audio di una voce per ricostruire la possibilità di creare un discorso detto da (…), allora c’è proprio un problema di relazione con le immagini e forse anche il fatto di dar per scontato che le immagini sono in ogni caso potenti quando non lo sono, allora come si fa, cioè come ci si inoltra in questo territorio che ha inficiato questa forza proprio dal punto di vista di coloro che con le immagini ci lavorano quotidianamente. Ho la domanda due, eh… non preoccupatevi!
A. S. Meno male.
L. R. Infatti, siamo la generazione sbagliata per rispondere. È per questo che abbiamo chiesto agli studenti di rispondere loro e penso che loro percepiscano molto più il dinamismo delle cose rispetto a noi. Noi riflettiamo abbiamo un tempo di fruizione diverso, loro ce l’hanno veloce e forse bisogna andare proprio dietro a questa velocità ed esasperarla, provocarla? Oppure, trovare il modo di iniziare veloci, andare a rilento? Lavorare sul ritmo. Io ho visto che sul ritmo loro si trovano meglio, lo capiscono.
R. P. D. Mi è capitato questi, in questi ultimi tempi, di vedere tanta grafica che viene creata oggi, una grafica dinamica, no? La grafica dove c’è il GIF, dove c’è l’animazione utilizzata ampiamente. Poi da questa, diciamo da queste immagini in movimento si ricavano anche le immagini statiche, però tanta, tanta grafica e una grafica che si muove. A proposito di movimento, tu hai citato e mi sembra un bellissimo riferimento al museo ebraico di Libeskind a Berlino e per come lei citato, ci fa pensare quello che tu hai detto a un luogo in realtà, dice sì poi hanno messo anche i documenti, però prima era più fico. Ma perché? Perché era uno spazio immersivo, era uno spazio immersivo e quindi legato a tutti i sensi. Allora pensare anche al museo. Alla progettazione museale a luoghi dove si incontrano documenti ma che vengono esperiti in un altro modo, forse permette di avvicinarsi. Diversamente penso per esempio all’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. Non vorrei sbagliare il nome mi sembra a Pieve Santo Stefano, dove è stato proprio, sono spazi piccoli, però sono stati proprio disegnati dei dispositivi dei minimi dispositivi con interazione che permettono di aprire dei cassetti dove dentro trovi il diario. Ma non trovi il diario cartaceo, ma trovi altri materiali, altre tecniche video dove senti le voci. Quindi forse la questione proprio della creazione di spazi e di spazi che ti permettano di immergerti anche nelle fonti, potrebbe essere una modalità di lavoro per affrontare tematiche come queste che in ogni caso ricordiamo, sono tematiche universali. Allora si parla della Shoah, si parla dell’Olocausto, ma pensiamo agli olocausti del presente perché altrimenti è tutto un lavoro sul passato.
E anche i ragazzi pensano che sia semplicemente un riflettere su qualcosa che è successo, che non ci riguarda, ma siamo in guerra adesso; c’è una guerra in corso ma non una, ci sono tante guerre in tanti luoghi, quindi, e ci sono anche tanti personaggi che non cito, insomma che dirigono tutto questo. Quindi forse riflettere su tutto ciò, guardare al passato ci potrebbe dare degli strumenti per investigare il presente, o no?
A. S. Sicuramente, io sono convinta di questo e diciamo che per me la guida è la fase dell’editoria del Politecnico, rivista che uscì nel cuore nel ’45. Pochi mesi dopo il 25 aprile, cioè il 29 settembre usciva già il primo numero del Politecnico diretto da Elio Vittorini. L’editoriale era “Una nuova cultura” e qual era la sintesi? Una cultura che non consoli ma prevenga. Questo è l’obiettivo, e l’obiettivo era fortemente sentito nei primi mesi dopo la tragedia. Perché era ancora una situazione, peraltro ancora oggi, di grave instabilità e quindi la cultura che bisognava formare era una cultura che mirasse alla prevenzione. Quindi non c’è dubbio che bisogna muoversi in quella direzione. E a proposito della domanda cosa si fa di fronte a dei giovani bombardati dalle immagini e quindi, diciamo così, relativamente insensibili alla forza del documento fotografico e non. Cosa si fa? Secondo me Lucia diceva, loro i giovani sono abituati molto più di noi al dinamismo e diceva “La domanda bisogna farla a loro, non a noi”. Non sono così d’accordo. Perché? Perché io credo che è indispensabile il dialogo tra le generazioni. Indispensabile perché è la dialettica che fa crescere, senza dialettica non c’è crescita. E se una delle due, diciamo dei due interlocutori della dialettica, manca, cioè se la generazione più vecchia diciamo così, che poi bisogna vedere che stacco si dà (…)
Ma dico se la generazione più vecchia si ritira, quella più giovane non ha lo strumento in mano della dialettica, non può crescere.
L. R. Noi facciamo la domanda.
A. S. Non basta. Io credo che la dialettica che io ho vissuto personalmente tra la mia posizione, io nel ’68 ero ventenne ed ero fortemente contestatrice, e i miei genitori, che ovviamente erano circa tra i 40 e i 500 (anni), quella dialettica è stata fondamentale. Se loro non mi avessero contrastato, non ci sarebbe stato sviluppo. C’è stata una forte dialettica Io credo che la mia generazione, anche nei confronti dei miei figli ed e di quei giovani, diciamo indipendentemente dal fatto che siano un figlio o meno, eh… si è un po’ ritirata da questo punto di vista e ha scelto un po’ una scorciatoia. Forse si è presa troppe poche responsabilità, credendo di prendersene di grandi e cioè dicendo c’è grande libertà che parlino loro, eh che parlino loro…ma perché loro parlino tu devi dire la tua e loro così potranno contestarti. Se tu non dice la tua dubito che ci sia diciamo una possibilità seria di confronto e quindi di sviluppo.
R. P. D. La parola dialettica, una parola chiave. Allora, nell’ebraismo c’è un witz che dice “Quando due ebrei si incontrano ci sono sempre tre punti di vista”, e la dice lunga. Quindi qualcosa di interlocutorio diverso, da semplicemente come si lavora normalmente nel prendere atto che le cose esistono, che sono quelle e quindi senza un pensiero critico, senza un giudizio cioè quello che si arrivi, infatti quello che arriva anche via rete attraverso vari canali, si può essere d’accordo o non si può essere d’accordo peròm spesso non c’è proprio una ricerca, un pensiero proprio una relazione tra le informazioni che arrivano e con una riflessione personale. Insomma, quindi la dialettica mi sembrerebbe di cruciale importanza proprio per attivare il tutto, anche attraverso forse gruppi di lavoro trans-generazionali. Quindi non è solo una questione di maestro, allievo, docente, studente, anche gruppi che lavorano insieme, che però appartengono a generazioni anche molto diverse, che ti permettono di guardare le cose in un altro modo insomma, non chiuso dentro un mondo tuo generazionale. L’anno scorso a Trieste c’è stata questa bellissima mostra proprio l’Italia e l’Alliance Graphique Internationale (AGI), venticinque grafici del ‘900, dove io ho potuto vedere il menabò del primo numero del Politecnico e il fatto di vederlo dal vivo qui riprodotto. Non lo vediamo in studio, ma potrete vederlo a casa lo pubblicheremo qui potrete rendervi conto, è meraviglioso, è proprio una pagina di grande equilibrio, bellissima. E già si vede in questo menabò proprio quello che sarebbe successo cioè tutto lo sviluppo di tutto questo. E come funziona col bello?
A. S. Col bello? Una domanda impegnativa, ovviamente.
R. P. D. È l’ultima domanda che deve essere complicata.
A. S. Allora, è molto diffusa la frase “La bellezza salverà il mondo”. Sicuramente c’è del vero e sicuramente di fronte non dico a Leonardo, non dico a Michelangelo, non dico a Van Gogh, eccetera… l”emozione, l’impatto umano, è tale da scuotere. Quindi la mettiamo col bello dicendo che serve e serve molto per raggiungerlo ci sono diversi punti di vista. Io rispondo sempre pensando alla dialettica, dicendo la mia in modo che un altro dica la sua e ci confrontiamo. Ma insomma la mia deriva da un’educazione rigorosa che mi ha insegnato una chiave di lettura del bello e cioè che il bello deriva dalla proporzione, dalle proporzioni armoniche che leggiamo nella natura. Io sono cresciuta con le immagini del disegno geometrico che sta dentro la farfalla, che sta dentro la formica, che sta dentro la peonia, che se dentro il garofano, che sta dentro al pezzo storico del capitello romano piuttosto che greco, che sta dentro al rosone delle chiese, a un confronto tra natura e artificio inteso come artefatto. E quindi… la metto così.
R. P. D. John Cage cita Ananda Coomaraswamy che cita Sant’Agostino e dice “imitazione della natura nel suo processo”, quindi non è tanto imitazione del disegno della farfalla, ma proprio della struttura dal suo interno e nel processo come noi agiamo, processo che riguarda tanto la progettazione, ovviamente. E poi questo mi fa pensare, in conclusione ha evocato questo mondo, appunto. Hai usato la parola chiave natura mi fa pensare proprio a questo dialogo sempre più necessario, inter-specie dove veramente uomini, cani, gatti, mondo animale mondo umano, mondo vegetale, mondo minerale si possano ritrovare persino alla pari. Quindi non è semplicemente l’imitazione di un qualcosa o riferirsi a, ma proprio un livello di dialogo, un livello di relazione molto diverso da quello che abbiamo immaginato fino a poco tempo fa. Allora io vi ringrazio, Anna Steiner, Lucia Roscini per questa conversazione e ci ritroveremo presto anche per vedere i risultati di queste giornate di lavoro. Grazie.
A. S. e L. R.
Grazie mille.